“E lo stadio, era pieno…Cinzia e il suo veleno”. Così recita il ritornello di un canzone scritta e interpretata da Antonello Venditti. Parla di due ragazzi precocemente genitori e in viaggio per Milano. “Destinazione San Siro”. In tanti l’abbiamo cantata proprio alla volta del capoluogo lombardo, in occasione di quella che era una delle “classiche” trasferte segnate dal campanile. Sebbene Venditti non sia certo la musa ispiratrice (almeno a livello umano) del curvaiolo medio. Sebbene spesso abbia valicato il confine della decenza per cavalcare l’onda di quei pochi successi ottenuti dalla Roma. Tutto sommato ci può stare. Anche lui deve rispondere a delle logiche di mercato. E tutto sommato poco me ne importa, non è questo il punto. Semmai ho sempre ritenuto che lo stadio sia tale perché contenente un pubblico quasi unico, diverso da quelli di tutti gli altri sport. E soprattutto diverso dagli spettatori medi di concerto. Soprattutto dei concerti di Venditti (ne apprezzo le canzoni che il tifoso giallorosso ha fatto sue e alcune che mi coinvolgono a livello umano, ma non ne condivido praticamente tutto il resto. Punti di vista).

Perché questa introduzione? Presto spiegato: l’arbitro fischia la fine di un Roma-Cesena sin troppo tirato, dove i capitolini l’hanno spuntata soltanto in extremis, grazie a un rigore francamente generoso. La Sud, quest’oggi piena (in tempi di magra un biglietto a 5 Euro invoglia ancora qualcuno ad andare allo stadio, e questo dovrebbe comunque far riflettere su quanto sia sbagliata e poco lungimirante la politica di folle innalzamento dei prezzi), si colora con una sciarpata che per intensità non si vedeva da anni. Bisogna ammetterlo. Ma è solo apparenza. Un involucro maestoso ma fondamentalmente vuoto. Quel settore che malgrado le diverse migliaia di spettatori ha fatto silenzio per quasi tutta la partita ora tira fuori la voce. Una voce stridente, con tanti smartphone che si levano al cielo. Esattamente come in un concerto vendittiano.

E poi i cori per Totti. Quelli per Nainggolan. E uno più sopito: quello contro la Lazio prossima avversaria in semifinale. Fa uno strano effetto non udirne nemmeno uno per la Roma, che in questa serata ha danzato a lungo sull’orlo della seconda figuraccia consecutiva in Coppa Italia (dopo l’eliminazione patita per mano dello Spezia lo scorso anno). Una curva che ha provato ad alzare la voce dopo il vantaggio di Dzeko, ripiombando nel silenzio più assordante in seguito al pareggio di Garritano. Sì, lo so, il paragone non si può fare: ma direi che ieri si è potuta vedere appieno tutta la differenza che c’è tra il tifoso cosiddetto occasionale, che lo stadio lo vede due volte l’anno, e quello fedele che lo segue ovunque e che generalmente non disdegna di farsi chiamare ultras (i cesenati, nella fattispecie).

I primi si accendono quando un giocatore, nel riscaldarsi, si avvicina sensibilmente al settore che occupano, oppure interessa imbastire cori che la tifoseria romanista ha stilisticamente sempre ripudiato (vedasi il “Chi non salta”), oppure quando la loro squadra sta per battere il rigore che potrebbe determinare il passaggio del turno e proprio laddove un tempo c’erano dei cuori palpitanti e a pochi passi dall’infarto, ora ci sono centinaia di telefonini pronti a immortalare “l’evento” e non a viverlo. Qualche tempo fa girava una foto che ritraeva dei giocatori del Barcellona o del Real Madrid (non ricordo bene) impegnati a giocare mentre dietro di loro quasi tutti i tifosi erano impegnati a fotografarli e realizzare video. Nessuno giudica il modo altrui di vivere il pallone (anche se il modus vivendi del tifo organizzato, per non sbagliare, viene quasi sempre messo alla gogna). Ma per chi, come me, ha spesso rischiato di lasciarci le coronarie in queste occasioni, è davvero inconcepibile.

Il problema non è chi ieri ha occupato in questa serata la Curva Sud, sia ben chiaro. Il problema è la tolleranza di tutti i modi che esistono per vivere lo stadio. Il tifoso che stravede per il giocatore, tanto da metterlo prima del significato ancestrale della squadra, è giusto che sia parte dello spettacolo, nessuno lo nega. Ma nel momento in cui diventerà il principale target siete sicuri di poter parlare ancora di tradizione, gloria, AS Roma, Lupa Capitolina, fedeltà etc etc?

Ho guardato per alcuni minuti dei ragazzi in Tribuna Tevere. Sapevano il fatto loro. Hanno riproposto un po’ di tifo dopo quasi due anni. Erano (sono) ultras. Senza presunzione: ho visto centinaia di partite e curve e capire le loro movenze è stato semplice. E semplicemente romantico. Perché si sentivano i cori della Roma. Quelli che per intere stagioni hanno contraddistinto il tifo organizzato giallorosso in ogni stadio dello Stivale. Quelli che in tanti hanno copiato e ancora oggi cantano, a volte riadattati. Gli è bastato un tempo per ricordare a tutti quali sono i cori e che storicamente transitano per le ugole dei romanisti.

Ho ammirato per lungo tempo anche i cesenati alla mia sinistra. Ben diversi da quella tifoseria spenta e deludente osservata qualche mese fa a Frosinone. Carichi, compatti e colorati. In poche centinaia hanno spesso subissato uno stadio. Osservando prima dieci minuti di silenzio, dimostrando solidarietà alla protesta della Sud. Sottolineando come ciò che avviene a queste latitudini può facilmente trasferirsi altrove. A me la “retorica ultras” ha sempre fatto storcere il naso, perché troppo spesso si è impregnata di ipocrisia o si è inoltrata in cose troppo più grandi degli ultras stessi. Ma in questo casso posso solo dire “grazie” ai ragazzi della Curva Mare. Perché il loro è stato un piccolo gesto ma una grande dimostrazione di rispetto e presa di coscienza. A chi in questi due anni ha spesso sostenuto che tutte le tifoserie ospiti non avrebbero dovuto venire a Roma per solidarietà ho sempre risposto che mi sembrava una pretesa fuori da ogni logica. Un po’ perché (diciamocelo chiaramente) le grandi tifoserie hanno spesso ignorato le proteste delle “provinciali” o i loro momenti di crisi, e un po’ perché la solidarietà non si pretende. Ma quando viene bisogna prenderla e non sputarci sopra.

Ultimo focus proprio dal campo. La Coppa Italia resta in assoluto una delle manifestazioni più discriminatorie del calcio internazionale. La gara di ieri dimostra come se le gare venissero giocate con il campo a favore del club meno forte l’esito della competizione non sarebbe poi così scontato e il suo interesse aumenterebbe in maniera esponenziale. Ma, diciamoci la verità, se così fosse a quei grandi club che spesso spendono milioni per poi fallire miseramente la stagione in un campionato mediocre, non rimarrebbe neanche questo tanto vituperato “porta ombrelli”. E allora si preferisce favorire sempre e comunque “i più forti”.