“E com’è senza di noi? Sì, com’è lo stadio senza la Curva Sud? Senza quei ragazzi che cantano novanta minuti. Perché noi…cantiamo novanta minuti!”. E’ una domanda. Triste. Malinconica. Piena di rabbia e rimpianto. Me l’ha fatta un cuore infranto. Di passaggio. Ma me l’ha fatta. Una di quelle persone che per questa situazione ci piange, ci soffre e si chiude in una conclamata solitudine. A tratti letale. Profondamente triste. Gente distorta. Soprattutto agli occhi di quelli che non capiscono, ma additano i fautori di questa protesta come il diavolo intento a somministrare del veleno a ciò che dice di amare, senza capire che il diavolo, è proprio quello che ha mozzicato vigliaccamente e in maniera infame il corpus domini, costringendolo a rinculare malamente.

E’ funereo lo stadio. Ti rispondo qua, perché in fondo tramite uno scarno messaggio non vale. Spero di rispondere a te e a tutti quelli che se lo chiedono. Basterebbero poche righe, ma in fondo forse neanche quelle. Certo, prenderla dal punto di vista sentimentalista è controproducente. Chi legge potrebbe sempre appellarsi al famoso codice da duro e puro e dirci bellamente: “Ma tutte ‘ste moine per un covo di delinquenti che seguono ventidue marionette dietro a un pallone?” Sì. Tutte ‘ste moine. E allora? L’Olimpico è un teatro deserto, vuoto e silente. Anzi, domenica sera era pure troppo rumoroso. Un rumore che ha parlato chiaro, ci ha detto chi e cosa vogliono i tifosi del futuro. Vogliono tifare le proprie idee e tenere sempre più lontano quel senso di appartenenza che per oltre cent’anni ha identificato chiunque varcasse il cancello di un campo sportivo.

Sì, voi siete quelli che cantavano novanta minuti. Lo sono, dentro, ancora pure io. Mica lo rinnego. Perché dovrei? A differenza di tanti che oggi portano la ventiquattrore, fumano quel puzzolente sigaro e si atteggiano a Gianni Brera de’ noantri. Gli anni più puri e sinceri della propria vita non si soffiano via. Tanto meno se a volerlo fare è qualcuno esterno e che poco ha a che vedere con le dinamiche che solitamente hanno mosso la tua passione.

Cinque gol vissuti nel grigiore. Cinque reti che un tempo sarebbero state foriere di esultanze e “cascate umane”. Ma che oggi servono solo a Tizio per inveire contro quel giocatore e a Caio per esaltarne l’assenza. Ovvio, i 55.000 di Roma-Real sono già un lontano ricordo. Tornati nella loro case a seguire altri club italiani, o a vedere una puntata di “Affari tuoi” dimenticando persino l’esistenza del pallone. Perché è così che va, dietro quel concetto di “fidelizzazione” che ci hanno propinato per anni (come se gente che va nello stesso posto, alla stessa ora da quarant’anni avesse bisogno di essere fidelizzata) ce n’è forse uno diametralmente opposto e più consono al calcio business. Soprattutto quello voluto da determinati salotti europei.

“Com’è lo stadio senza di noi?“. Non sussiste. Perde tutto il suo fascino, il suo ardore e il suo senso di esistere. Sono lontani, tanto, quei Roma-Palermo di inizio anni 2000, con i siciliani da poco tornati in Serie A e seguiti da almeno 10.000 tifosi. Lo stadio pieno. I colori, i canti, l’odore acre dei fumogeni. Potremmo star qui a parlarne per un anno, ripetendo sempre le stesse cose, e forse qualcuno neanche si stancherebbe di sentirle.

Quelle due entrate poste davanti alla Sud, che ne preannunciano la divisione, ti fanno capire che forse è definitivamente tramontata un’era. “Piango a pensarlo, perché vuol dire perdere dieci anni di vita”. Mi ha detto sempre quella persona, di cui ne ho ascoltato a cuore aperto le parole. E le ho comprese, condivise e pure sottolineate. A me stesso. Al mio inconscio che spesso tenta di rimuovere frame del passato o fotogrammi che dipingono “momenti di gloria” trascorsi dove tutto iniziò.

Salah ha appena segnato un gol che ricorderemo per anni. Dalla linea di fondo è stato capace di imprimere al pallone un effetto tale da girare ed entrare nella porta lasciata incustodita. Tutti sono in piedi ad applaudirlo. Ovviamente quoi pochi presenti. Con quel buco blu alla mia destra che è sintomatico dei tempi e che annulla il bellissimo gesto calcistico. “Perché in tanti hanno cominciato ad amare la Roma venendo in Curva Sud, come si fa a sopportare che questa muoia?”. Mi ha domandato. Non ho saputo rispondere. Perché aveva ragione e perché non si può dare una risposta concreta o in grado di rinfrancare chi ha un’intensa tristezza nel cuore.

L’arbitro ha sancito la fine delle ostilità. Mi giro verso Monte Mario, dopo esser uscito dallo stadio, e vedo la luna che fa capannello proprio sopra la Madonnina. Quella statuetta che per tanti delle generazioni passate ha rappresentato il poter avverare un sogno senza averne i mezzi. Il poter assistere a una gara di Roma e Lazio anche se non potevano permettersi il biglietto. Il diritto di sognare. Oggi negato. Oggi verrebbero definiti “abusivi” o, peggio ancora, “delinquenti”. Non ha amor proprio questa società. E non ce l’ha ancor più Roma “Scordarella” come direbbero i suoi vecchi abitanti. Perché di loro se ne sta perdendo traccia, in luogo di un’omologazione spaventosa e volta a cancellare tutto. Curva Sud e Curva Nord comprese.

Simone Meloni