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Faccio un quarto di secolo. La vivo male, come se tutti questi anni piombassero così d’improvviso. Tutto sembra scorrere e tutto sembra cambiare. Per contrarietà, solo a volte concependone i mutamenti, tra le passioni che hanno movimentato questi anni c’è sicuramente quella dello stadio. Passione che ho visto modificarsi nel modus vivendi e operandi con i teenager di questa nuova generazione ancor più tecnologica della nostra.

Non è il pippone moralista dell’ormai tanto usuale e conclamato “una volta era davvero tutt’altra cosa…”, ma la constatazione di una metamorfosi compiuta.

Siamo stati la generazione che iniziò a scoprire internet, con maggiore proficuità, procreando, tra i vari aspetti negativi, figure diaboliche. Come i celeberrimi “leoni da tastiera”, iniziati ad apparire nei forum, con soprannomi tra i più guerrieri e millantatori di una militanza da stadio, che li ha visti spadroneggiare in tutti gli stadi avversari: solo dopo la merendina delle 5.

Siamo i nostalgici di epoche mai vissute, nei primi forum si spulciavano foto di coreografie e stadi stracolmi, nel pieno degli ultimi ruggenti anni ’90: dalla A alla C, fino ai campi di periferia. Quelli che abbiamo vissuto ai titoli di coda.

Quella partecipazione che inizia a disperdersi di campionato in campionato, nel primo decennio del nuovo millennio tra scandali e norme restrittive. Le prime fanzine lette, i giornali sportivi che sommariamente raccontavano della partita imminente, dell’avversaria sul campo e sugli spalti. Residui elementi di anni passati, comunque aspetti che ti legavano al vivere lo stadio.

La metamorfosi compiuta con la nuova generazione è in fondo, con lucidità, un passaggio che i social, internet e la deformazione del Calcio Moderno hanno accelerato e canalizzato nella strada che oggi si palesa con forza. C’è stata in questi anni una decontestualizzazione di ogni aspetto che si è vissuto allo stadio, delegittimando con leggi repressive ogni elemento che dava colore e calore alle Curve: torce, tamburi, striscioni. Questi ultimi vincolati dalla legislazione che prevede l’introduzione solo previa approvazione della Questura: tra richieste da effettuare 7 giorni prima e la risposta in fax. Libertà di espressione subordinata alla burocrazia.

Oltre il grigiore, c’è un qualcosa di profondo nel modificare l’approccio al modo di vivere lo stadio: l’essere è diventato apparire. Lo stadio non è più aggregazione, ma fruizione di singoli clienti rispetto a singoli eventi. Ognuno con il proprio posto assegnato, con la propria tessera, con il proprio merchandising da cui attingere per comprare gli oggetti appartenenti alla propria squadra del cuore: è il mercato, bellezza! Lo stesso che porta a creare servizi collaterali: ristoranti, bar, negozi come vediamo negli stadi dei top club europei. Il calcio si è instaurato in un’ottica di entertainment, rendendo malleabili cambiamenti che prima avrebbero creato sussulti di orgoglio: stadi intitolati a sponsor che hanno ingentemente finanziato la squadra che gioca in quell’impianto, la Dacia Arena al posto del vecchio Stadio Friuli; stemmi modificati com’è successo a Roma, a Manchester sponda City dove, dopo una consultazione con i tifosi, è stato scelto un simbolo che si rifà al vecchio logo precedente al 97. Da una parte i designer che hanno progettato il restyling del logo che si rifà a quello del 1972, hanno strizzato un occhio all’holding che fa capo al Manchester City: la City Football Group. Il nuovo logo infatti, mostra una grafica simile a quella delle sue sorelle New York City Football Club e al Melbourne City Football Club, squadre che fanno capo alla stessa holding. In fondo ci stiamo yankeezzando, c’è un tocco di quel mondo Nba che, almeno nel calcio europeo, si era sempre cercato di evitare: quando inizieremo a chiamarlo Soccer, il percorso sarà concluso.

Il mondo porta in sé cambiamenti che sconvolgono i valori che prima ponevamo come capisaldi: aggregazione, condivisione, amore per la maglia, la relatività della categoria. C’è chi dice basta al suo percorso: ne ho visti, gruppi ultras, semplici club e persino singoli tifosi, nel rispetto di una loro coerenza profonda, smettere e preferire di escludersi autonomamente, prima che la repressione li consumi.

Oppure l’altra strada è quella di continuare a lottare, come Don Chisciotte contro i Mulini a vento di un entertainment che si maschera da Sport che fu.

Nella mia generazione di nostalgici di epoche mai vissute, un film che ha fatto breccia nel cuore di molti è “Febbre a 90°”.

L’istantanea impressa è il dialogo tra il padre e il giovane Paul, dove, son forti le resistenze del figlio nel cambiare il programma giornaliero: scegliere il Cinema ad una giornata all’Highbury, come consigliato dal padre. La parte finale di questa conversazione rimane nell’immaginario collettivo:

-“Senti, mica dobbiamo andare a vedere l’Arsenal tutte le volte che vengo a Londra, ti pare? Pensavo l’avessimo superata questa fase.”;
– “Noi non supereremo mai questa fase”.
Tutto reso ancor più magico dal sottofondo di Baba O’Reily dei The Who.

Vivere la passione calcistica è la cosa più difficile che possa esistere: richiede sacrificio, riuscire a ritagliarsi spazi tra gli impegni di vita, tra la routine, tra gli affetti cari; che supportano, sopportano, o a volte ti mandano a farti benedire.

Vivere la passione dello stadio, oggi, assume i contorni di un’impresa: nel dribblare e nel riuscire a coesistere a leggi repressive, degne del peggior totalitarismo, orari strani, situazioni economiche non esaltanti per sostenere certe spese.

Eppure in questi vuoti e differenze generazionali, ci sono storie di bellezza contemporanea, eroi utopici: Ideale Bari, Centro Storico Lebowsky, e uno sguardo in Inghilterra, con lo United of Manchester.

Ripartire dai campi di provincia, con la partecipazione popolare, domeniche in gradinata a seguire la squadra.

Romantici Don Chisciotte che mi fanno rivivere ricordi d’infanzia; di quel calcio raccontato e vissuto nei suoi ultimi sprazzi. Giusto il tempo di diventarne nostalgico.

Gian Luca Sapere.