Che la dottrina della competitività economico-finanziaria stia fissando le tende anche nel sistema-Calcio, inimicandosi chiunque racchiuda in quel rettangolo verde i suoi 90 minuti di passioni, di speranze, di aggregazione e di sentimento, non stupisce nemmeno più. Da circa un decennio – ossia, dalla ribalta di Roman Abramovic nella Londra Blu del Chelsea -, è in atto un processo di commercializzazione delle emozioni, che si tramuta in larghi profitti per chi investa somme considerevoli (e sia altrettanto avido di proventi) e in completa disaffezione per gli altri, cioè il tifo organizzato, a cui non può che far specie questa mercificazione della fede. Il tutto, poi, sfocia nell’annientamento della storicità, costretta passivamente fra le perversioni della cupidigia.

Dunque, anche le forme più nette del supporto hanno imparato a convivere con le contraddizioni di una struttura che desidererebbe avvicinare le masse popolari agli stadi, ma opera inconsapevolmente (?) perché gli stessi restino vuoti, o addirittura affinché vengano disertati. Si badi bene nel tacciare queste tesi di bieca dietrologia: i fatti, gli accordi, i sodalizi contrattuali fra società ed emittenti televisive, le confermano e ne rafforzano l’agire.

Il riassunto fedele allo scempio sin ora descritto si indirizza verso il Derby di Milano, la Sfida delle sfide nell’alveo della supremazia cittadina. La conclusione della trattativa fra gli acquirenti cinesi e Silvio Berlusconi ha livellato l’asiatico cambio di proprietà dell’Inter, e dunque darà vita ad una Stracittadina dal retrogusto insolito e (in parte) amaro. In quanto, se è irreversibile accettare l’inevitabile omologazione ai dettami della concorrenza internazionale – dove bisogna essere adeguatamente preparati alla immensa capacità d’acquisto dei flussi di petroldollari, o delle vagonate di yuan -, non è necessariamente conseguente che le tradizioni debbano essere stravolte.

Per approfondire, basta prendere coscienza dell’improponibile calendarizzazione della disputa meneghina: nessuno si sarebbe mai aspettato che da un San Siro in notturna, ricolmo di fermento per una cavalcata di Javier Zanetti e per un velenoso cambio di passo di Shevchenko‎, si approdasse ad una plastificata contesa, nel mezzo di un invitante antipasto e di un’abbondante Lasagna. Senza voler rimacare, poi, che ciò valga solo per le generazioni non avvezze alle sortite domenicali delle 14:30. Non c’è via di scampo, quindi: la “finanziarizzazione” del Calcio sta imponendo l’esclusiva dei diritti televisivi, a cui segue la secolarizzazione della più pura declinazione di gioia di ogni tempo, cioè un pallone rotolante in fondo ad una rete. Da questa impasse, solo Pasolini può accorrere in maniera salvifica: “Il Calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. […] Mentre altre rappresentazioni sacre, persino la Messa, sono in declino, il Calcio è l’unica rimastaci”.

Alex Angelo D’Addio.