Nella percezione del tifoso di Curva il daspo ha finito col tempo per diventare un vero e proprio sinonimo di repressione per tutta una serie di motivi, se così vogliamo dire, di stratificazione. Ovvero di azioni, talvolta strutturate altre volte estemporanee, ma che in concorso hanno creato un apparato normativo fortemente punitivo. Facendo un excursus che potremmo definire storico, quando nel 1989 è stato introdotto il daspo, forse esisteva ancora una visione quasi romantica dello scontro fra gli ultras e quel famoso terzo blocco costituito dalle forze dell’ordine. Per citare un aneddoto personale, ricordo di una domenica turbolenta della mia adolescenza di provincia quando, per arginare i nostri bollenti spiriti, un poliziotto puntò uno di noi e semplicemente gli disse: «Domani mattina passo al lavoro da tuo padre a raccontargli tutto…” Inutile dire che fu un deterrente più efficace di decine di manganellate il cui unico risultato è spesso solo quello di esasperare ancora di più gli animi, talvolta portando fuori controllo situazioni che sarebbero potute rientrare in altro modo. Vedasi, tanto per fare un esempio, il pasticcio delle forze dell’ordine a Cesena durante Italia-Ungheria.

Senza comunque perdersi nella retorica della nostalgia dei bei tempi andati, spesso fuorviante, la realtà è anche figlia del suo tempo ed è chiaro che nel passato era tutto un po’ diverso. C’era ancora qualche riverbero della stagione delle lotte politiche, forse nella città metropolitane si procedeva più velocemente verso altre trasformazioni, sociali e culturali o sottoculturali, ma insomma le preoccupazioni delle istituzioni erano di certo altre che non trattare dei banalissimi tifosi di calcio alla stregua dei terroristi. Anche perché in realtà il movimento ultras non era nato con una propensione sfacciatamente violenta o quanto meno non era né più né meno violento del resto della società di cui lo stadio era riferimento e specchio. Uno stadio che già di per sé, prima della comparsa degli ultras, aveva una sua fortissima territorialità e non era così sistematico o sicuro che gli ultras avversari si presentassero in trasferta, in tutte le trasferte, specie quelle più lontane o più a rischio. Cosa che di fatto abbassava di molto la conflittualità. Ragion per cui il daspo era solo l’estremo rimedio ad un qualche male estremo e spesso non era nemmeno così tanto differente dal foglio di via che talvolta si usava in precedenza, in mancanza di uno strumento specifico: nemmeno l’obbligo di firma all’inizio era così strettamente correlato al daspo che ti “diffidava”, appunto, dall’andare allo stadio ma quasi solo a parole, sulla fiducia.

Le cose sono cominciate a cambiare inoltrandosi negli anni ’90, con la diffusione capillare del fenomeno sul territorio, quando praticamente non rimase una sola città, a prescindere dalle dimensioni, dalla collocazione geografica, nord o sud, dalla categoria o dallo sport a non avere un gruppo ultras. Sono aumentati i numeri e sono aumentati i problemi e forti di un tifo meglio organizzato, anche le trasferte sono diventate più frequenti, da qui la necessità di blindare militarmente stadi e circondario, cosa che paradossalmente ha facilitato ulteriormente l’aumento delle presenze ospiti in virtù della relativa maggior sicurezza data dalle scorte o dall’istituzione dei settori ospiti separati da quelli locali. Cito liberamente il compianto professor Alessandro Dal Lago che nel suo libro “Descrizione di una battaglia”, dopo quella che in etnografia chiamano “osservazione partecipante” in cui frequentò gli stadi di Milano, Bergamo e Torino per un paio d’anni, proprio tra fine ’80 e inizi ’90, ossia mentre lo Stato ritenne urgente varare il Daspo, disse – più o meno – che in ragione degli abnormi numeri di persone coinvolte ad uno spettacolo comunque emotivamente eccitante e contrappositivo come il calcio, il numero dei morti, dei feriti o delle persone protagoniste di violenze poteva essere molto più alto anche solo per pure ragioni statistiche. Se ciò non successe era perché – almeno in teoria, poi non sempre è così – gli ultras avevano codificato questa violenza trasformandola da “istintuale” a rituale e simbolica. Tutto il resto è panico sociale e al panico sociale si risponde parlando alla pancia dell’opinione pubblica con provvedimenti come il daspo. E ad ogni eccezione da questa statistica, ad ogni picco, ad ogni morte, ad ogni fatto grave successo nell’alveo del tifo e che turbava l’immaginario collettivo si è risposto con ulteriori giri di vite, inasprimenti di pene, esperimenti di controllo sociale e tecnologico delle masse. Sempre sull’onda emotiva, a forza di decreti legge e mai con un disegno di legge ragionato, men che meno confrontandosi con quella parte sociale che gli stadi li frequenta o almeno sforzandosi di capirne le dinamiche che le animano.

Il G8 di Genova non ha meravigliato il mondo del tifo perché oltre al daspo, il manganello a rovescio l’aveva già assaggiato, aveva già tastato i grotteschi fermi preventivi sulla base di una pericolosità presunta ed arbitraria, aveva già pianto per i lacrimogeni al CS in barba alla Convenzione di Ginevra che ne vietava l’uso, aveva già pianto anche i suoi morti per – come lo chiamano – l’eccesso colposo nell’uso delle armi. E per questi stessi motivi, se l’Italia e il resto del mondo si sono svegliati solo in quel luglio del 2001 per poi ritornare in catalessi, ciclicamente risvegliandosi stupiti solo di fronte a un qualche abuso clamoroso, non è casuale se il mondo ultras s’è schierato subito nettamente su Aldrovandi così come su Cucchi o altre vittime di questo modo arrogante di gestire la delega dei cittadini del potere esecutivo. Perché lo conoscono e lo vivono quotidianamente sulla propria pelle e altrettanto quotidianamente è stato per esempio difficile esporre striscioni di sensibilizzazione sul tema o il volto stilizzato di Federico perché ritenuti offensivi o inappropriati. Chiaramente, spesso, oltre alla già meschina censura sono poi sopraggiunti i daspo per la sola intenzionalità dell’esposizione senza nemmeno la soddisfazione di averlo fatto.

Paradossalmente ognuna di queste micro-criticità portano in macro ad un aggravio della cosiddetta repressione: una delle ultime novità con cui ci trovammo a fare i conti prima della pandemia furono i regolamenti d’uso dello stadio, praticamente una nuova licenza a discrezione non già degli organi di polizia, che ricordiamolo, nemmeno loro hanno facoltà giudiziarie, bensì dei privati, delle proprietà o dei gestori degli stadi che, con l’acquisto del biglietto e l’ingresso nel loro stesso impianto calcistico, ti vincolano a tutta una serie di norme che spesso fuori manco esistono. Fuori dallo stadio, magari al cinema, se per sbaglio o meno occupi un posto non tuo, non c’è un qualsivoglia controllore che ti multa per questo, al massimo arriva l’avente diritto e ti chiede il posto. Allo stadio no, ti multano: se occupi un posto non tuo ma anche se sosti sulle scale d’emergenza, se sali in balaustra per lanciare i cori e in tempi di pandemia hanno multato anche gente che aveva tirato giù la mascherina per cantare ed esultare. Ok, pericoloso quanto vogliamo ma nel contempo vedevi i presidenti delle squadre o il resto della tribuna vip senza mascherine senza che nessuno gliene rendesse conto. E in caso di recidiva c’è ancora il (non tanto) caro vecchio daspo.

La realtà è che il calcio, lo stadio e in misura più particolare la Curva sono uno degli ultimi, se non l’ultimo in assoluto, spazio aggregativo della nostra società, una società che al contrario è stata sempre più direzionata verso un individualismo consumistico che è tanto monetizzabile quanto facilmente controllabile. A differenza dell’aggregazione ultras che proprio per la sua natura multiforme è molto più sfuggente e poi ha un antagonismo intrinseco che dà sempre un certo fastidio a chi lo guarda dall’alto. Senza trascurare la strumentalizzazione del giornalismo che ad ogni piccolezza parla di Follia Ultrà o Chock pur di carpire qualche click in più, aizzando isterismi nell’opinione pubblica e rappresaglie da parte dei controllori.

Il daspo è insomma solo la punta di questo iceberg sotto il quale sono sommerse ingiustizie e abusi di un sistema punitivo che già di per sé rappresenta un abuso rispetto ai principi costituzionali che spesso va a forzare. Poi c’è appunto l’aspetto punitivo affianco al quale non è prevista alcuna forma rieducativa, se così vogliamo dire. Nessuna forma di dialogo oltre alla demonizzazione indiscriminata. Adesso senza scandagliare modelli esteri che al contrario di quel che dicono non sempre sono importabili in blocco, però altrove i soldi delle multe per intemperanze dei tifosi non se li mangia tutti la Lega Calcio di turno ma vengono reinvestiti in percorsi sociali e solidali in cui coinvolgere gli stessi tifosi, ci sono i fanprojeckt che cercano di mediare con i tifosi e di perorarne in qualche modo le cause, le stesse istanze del tifo organizzato non vengono ignorate ma spesso e volentieri recepite. Alla fine, parlando del vil denaro, sono clienti in qualche modo insoddisfatti e tender loro una mano vuol dire il più delle volte migliorare la fruibilità del prodotto e renderlo più appetibile e vendibile. Converrebbe anche a loro insomma.

Così mentre altrove si cercano dei modi per permettere in sicurezza l’uso della pirotecnica da noi la si criminalizza a priori e si diffida anche solo il porto; se altrove un corteo è anche il modo migliore per convogliare la massa più velocemente possibile dentro lo stadio qui si diffida per manifestazione non autorizzata; altrove fanno proteste contro il carobiglietti o i posticipi e stabiliscono un tetto per i biglietti dei settori ospiti o cancellano l’odioso posticipo del lunedì mentre da noi è già tanto se ai tornelli ti fanno passare lo striscione. Di esempi e problemi ce ne sarebbero infiniti, così tanti che messi tutti insieme si trasformano in frustrazione e in una sorta di odio sociale fra le parti che non fa bene a nessuno.

In questa esasperazione delle cose è chiaro che hanno diverse colpe anche i tifosi, sarebbe stupido negarlo ed è normale che se non ci fossero stati tutta una serie di eventi delittuosi scatenanti non avremmo registrato nemmeno l’escalation repressiva. Ma questo lo sanno tutti, visto che è stato a dir poco sovraesposto dal punto di vista mediatico. Mentre invece si minimizza quando, e numeri alla mano succede con una frequenza spaventosa, le colpe stanno dall’altra parte e non solo nessuno ha il coraggio e l’onestà di prendersele ma addirittura cercano di svicolare da esse affidandosi al buon vecchio capro espiatorio. Se alla fine prestate l’orecchio e ascoltate bene il coro non sentirete mica chiedere “impunità per gli ultras” ma “libertà per gli ultras”. Libertà di essere quello che si è, anche di sbagliare se è possibile, anche di assecondare coscientemente quei lati della propria subcultura che per la legge sono deprecabili, ma di pagare esattamente per quello, non di meno e nemmeno di più. Senza dover fare da carne da macello, come è successo, per le questure che a fine anno stappano bottiglie per festeggiare il record di daspo (e non capisco nemmeno come una società civile possa considerare un successo le pene inflitte e non quelle ridotte) oppure per giudici che si inerpicano su ipotesi di reato come l’associazione a delinquere che dire forzati è dire poco o che magari anche davanti a quadri probatori equivoci, penso al caso Speziale, fanno spallucce.

E a proposito di libertà, per dirla con una citazione un po’ nerd tratta da Star Wars: di fronte a questo abominio giuridico del daspo che è poi esondato in ogni angolo del vivere quotidiano, dal daspo di piazza al daspo urbano implementato nel cosiddetto daspo Willy, non possiamo non pensare a quante parti del nostro consesso sociale hanno avallato queste storture perché andavano a colpire soggetti sgraditi o che in certo modo si ritenevano meritevoli persino di una punizione sproporzionata rispetto all’infrazione commessa. Nessuna di queste sicurezze, che poi il più delle volte sono più presunte che reali, vale più delle libertà personali e mai come società dovremmo derogare a ciò, men che meno accoglierle con soddisfazione. Perché come dissero ne La Vendetta dei Sith, è poi così che muore la libertà, fra scroscianti applausi.

Matteo Falcone