Il rischio di non esserci

L’ho scoperto soltanto un giorno prima, grazie alla “dritta” di un amico presente in quel di Kharkiv. Dinamo e AEK disputeranno il ritorno dei sedicesimi dell’Europa League proprio allo Stadio Olimpico di Kiev. Secondo i miei calcoli – palesemente errati – la gara di ritorno si sarebbe dovuta invece disputare nella capitale greca.

Sarebbe stato il secondo errore di questa portata. Quando venni per la prima volta a Kiev, nel 2011, beccai sempre la Dinamo in casa, contro il Manchester City. Peccato che non essendone a conoscenza bucai clamorosamente la presenza. È vero, in quegli anni non ero così impantanato con le “partitelle” e forse non mi passò neanche per la testa di controllare il calendario. Stavolta però sarebbe stata una vera e propria debacle personale. Che mi avrebbe forse costretto al prematuro ritiro dalle scene ultras (sic!).

Acclarata la possibilità di assistere per la prima volta alla partita della storica compagine biancazzurra, rimodulo anche il mio ultimo spostamento dell’indomani, quello da Kiev a Leopoli, che purtroppo non avverrà più in treno ma in pullman, abbondantemente dopo il fischio finale.

E sempre in pullman raggiungo la Capitale da Kharkiv. Alle sette del mattino subire l’escursione termica dell’inverno ucraino non è esattamente la cosa più piacevole di questo mondo. Soprattutto se un accenno di raffreddore comincia a consigliarti il ritorno a temperature più miti. Ma ormai essendo in ballo non mi resta che ballare.

Rispetto a sette anni fa trovo una città scossa dagli ultimi avvenimenti politici del Paese. Ne ho ampiamente parlato nel resoconto di Shakhtar Donetsk-Roma e sarebbe ridondante star qui a ripetere gli stessi concetti. Di certo però il finto check-in di guerra “allestito” di fronte al Parlamento per le ricorrenze della Rivoluzione del 2014, con tanto di soldati veri a piantonare l’area, non lascia molto all’immaginazione. Così come le centinaia di immagini dedicate a soldati e civili morti, sparse attorno alla centralissima Piazza Indipendenza, destano un senso di inquietudine.

Magari può sembrare banale, ma la percezione della guerra è un qualcosa a cui noi occidentali fortunatamente non siamo più abituati e vederla rappresentata in questa maniera, toccarla da vicino, a prescindere dalle fazioni coinvolte, fa un effetto tranciante. Quasi ancestrale. Fa riflettere. E per qualche minuto sembra anche di non sentire il gelo morderti le gote uscendo dalla calda metropolitana.

 

Un Colonnello prestato al calcio

Da Piazza Indipendenza decido di tagliare dritto verso il bacino del Dnipro, con l’intento di raggiungere lo Stadio Dinamo, intitolato da qualche anno alla memoria del celebre allenatore Valerij Lobanovski. La gara di questa sera non sarà purtroppo disputata qua. La sua minuta capienza (17.000) non permette infatti un grande afflusso di pubblico, così il club biancazzurro gioca regolarmente le sue partite internazionali nel più grande e rinnovato stadio Olimpico.

Avvicinarsi all’impianto è quasi una marcia verso la storia. Come i tanti stadi dell’Est disseminati nelle grandi città, anche questo conserva tutto il suo fascino arcaico, trasmettendo alla perfezione l’idea di come lo sport venisse concepito nei Paesi socialisti. L’arcata monumentale che precede gli ingressi è adornata da una grande statua di Valerij Lobanovski, vero e proprio padre spirituale del calcio ucraino.

Ho la fortuna di averne minima memoria, nelle sue ultime stagioni di attività. Il “Colonnello” (così chiamato per i trascorsi nell’Armata Rossa) è stato l’uomo che ha rivoluzionato il calcio sovietico prima e ucraino poi, sfornando decine di talenti (per i più giovani faccio due nomi: Shevchenko e Rebrov), portando la Dinamo alla ribalta internazionale con un doppio successo nella stupenda (e purtroppo defunta) Coppa delle Coppe e uno nella Supercoppa Europea, oltre a una sfilza di campionati e coppe nazionali (quando vincere un campionato o una coppa significava fronteggiarsi con squadroni di tutta l’Unione Sovietica) e forgiando la Nazionale degli anni ottanta, quella che nell’Europeo del 1988 dovette arrendersi solo in finale all’Olanda dei Gullit e dei Van Basten (superando in semifinale proprio l’Italia del compianto Vicini).

Valerij Lobanovski è ovunque si giochi una partita di calcio in Ucraina (e non solo). È nei nomi delle strade, degli impianti e dei tornei a lui dedicati. È stato un innovatore, un uomo dal polso di ferro. Uno che ha lasciato questo mondo sul campo, il 7 maggio del 2002, quando la Dinamo era impegnata a Zaporižžja, contro il Metalurh. Qualche settimana dopo il Milan vincerà la Champions League a Manchester, battendo la Juventus ai rigori. Shevchenko volerà in Ucraina, accorrendo alla tomba del suo padre sportivo e deponendovi la medaglia e la coppa.

Con la stessa durezza del “Colonnello” gli addetti alla sicurezza mi impediscono di raggiungere le gradinate, facendo svanire il mio desiderio di realizzare un piccolo reportage nello stadio vuoto. Inutile spiegarsi: il mio inglese è per loro incomprensibile (una volta tanto non a causa del sottoscritto), tanto che a un certo punto comincio a parlargli in italiano, puntando sulla gestualità della nostra lingua. Risultato? Vengo cacciato via senza limiti di trattativa.

 

Verso l’Olimpico, senza timori reverenziali

Nel frattempo comincia a scendere la neve. Voglio raggiungere lo stadio Olimpico, speranzoso di potermi chiudere in qualche bar almeno un’oretta, prima di entrare. Fortunatamente ho girato Kiev abbastanza approfonditamente nel 2011, pertanto oggi posso permettermi di tralasciare le velleità turistiche e dedicare tutta la mia permanenza al calcio. Sebbene il meteo non sia molto d’accordo e le mie Adidas comincino a dar segno di cedimento, calpestando il ghiaccio che lentamente filtra in veste di acqua. Un qualcosa di non molto simpatico.

La cosa stupenda di questi Paesi è la certezza di poter sempre entrare in pasticcerie di ottimo livello, potendo gustare deliziosi tranci di torta a buon prezzo. Prendo allora due piccioni con una fava, riparandomi dal freddo e mandando giù un po’ di zuccheri. Nel frattempo dalla vetrina osservo i militari lentamente disporsi attorno al perimetro dello stadio e una fila farsi sempre più cospicua alle biglietterie.

L’Olimpico di Kiev è stato inaugurato nel 1923 e ristrutturato a più riprese. Ultima nel 2012, in occasione dei campionati Europei organizzati da Polonia e Ucraina. Un impianto che l’Italia ricorda con sapore agrodolce: fu qua infatti che gli azzurri di Prandelli batterono l’Inghilterra ai quarti, avanzando verso la finalissima con la Spagna, persa sullo stesso terreno di gioco con un sonoro 4-0. Sarà peraltro la sede della Finale di Champions 2018.

Conoscendo l’elasticità mentale e la disponibilità degli addetti ai lavori locali (può sembrar strano ma è così) decido di giocarmi la carta del “giornalista forestiero” per entrare in campo come fotografo. Non sapendo anticipatamente della partita non ho inoltrato richieste di accredito, ma tentare di far valere le mie “ragioni” non mi costa nulla.

Per pararmi da eventuali rifiuti decido però di acquistare un biglietto. Non conoscendo ovviamente la disposizione dei tifosi di casa e di quelli ospiti mi imbatto in un bagarino che, in un inglese pressoché perfetto e con molta gentilezza, mi spiega dove sono di solito gli ultras della Dinamo e dove, invece, verranno sistemati gli ospiti. Alla fine opto per un tagliando di curva. Totale della spesa? 35 Grivne. 1 Euro. “Ho fatto bene o no?”, direbbe qualcuno.

Comunque il biglietto servirà solo a rimpinguare la mia collezione. All’ingresso media, appurata la classica inefficienza degli steward (e soprattutto l’impossibilità di comunicarci) spiego la mia situazione a un collega greco, che molto gentilmente si offre di mandarmi un qualcuno dell’ufficio stampa della Dinamo. Dopo pochi minuti un uomo sulla cinquantina mi si fa incontro, porgendomi un pass per il campo. Assodata la mia provenienza italiana dice di amare il nostro calcio e di esser stato diverse volte nel Belpaese. Stesso siparietto che si ripeterà poco dopo in sala stampa, quando un gruppo di giornalisti ucraini – non so come e non so perché – viene a sapere della mia nazionalità invitandomi a bere del tè in loro compagnia e scambiare quattro chiacchiere sul calcio in generale, rimanendo sorpresi dalla mia buona conoscenza del loro Paese.

Una mezz’ora prima delle 20 decido finalmente di metter piede sul tartan della pista d’atletica. Lo stadio è imponente e la neve che ora scende copiosa rende il tutto molto autoctono. Fa freddo, ma tutto sommato, non mettendo piede sul ghiaccio e facendo attenzione a non scoprire neanche un centimetro di pelle, si può resistere dignitosamente.

Proprio vicino a me i tifosi dell’AEK stanno entrando alla spicciolata. Saranno circa 200, un numero congruo alle mie aspettative. In passato ho avuto modo di vedere gli ultras del Panathinaikos a Mosca, sempre contro una Dinamo. Una presenza che si attestò sotto le 100 unità. Al netto di costi e distanza direi quindi che siamo nella media consentita. Inoltre, non nascondiamoci dietro a un dito, queste sono ancora trasferte in cui bisogna tenere gli occhi aperti. Soprattutto in casi, come questi, dove sussiste una contrapposizione politica.

Resta uno scontro che mi incuriosisce quello tra greci e ucraini, due modi molto differenti di vivere il calcio e lo stadio. Due popoli lontani, sebbene uniti da alcune linee invisibili (basti pensare alla religione, trattandosi di due Paesi ortodossi), nonché portatori di millenarie culture nel Vecchio Continente.

È chiaro che i 70.000 posti a disposizione non verranno mai colmati. Saranno circa 27.000 gli spettatori. Per la tipica partita in cui a primeggiare sono le fazioni ultras, protagoniste indiscusse di queste sfide. Del resto questa non è la Champions League, mediamente popolata da club e tifosi da salotto. Questo è ciò che resta di mitiche competizioni quali furono Coppa Uefa e Coppa delle Coppe.

Abbiamo detto della Dinamo e dei suoi trofei. Checché se ne possa dire, per quanto si voglia far passare i vari Shakhtar della situazione come “nuovi padroni” del calcio ucraino, quella “D” blu ricamata su campo bianco è e resterà per sempre il simbolo del calcio locale. Troppo grande la sua storia, troppo alto il prestigio sportivo e sociale accumulato dal 1927 a oggi, per essere scalfito. Il club, fondato come squadra della polizia –  cui il termine “Dinamo” faceva sempre riferimento nei Paesi socialisti (es. Dinamo Mosca, Dinamo Tblisi, Dinamo Berlino) – è stata di fatto l’unica squadra non russa a contendere lo scettro di regina alle compagini moscovite durante il campionato sovietico. E questo la dice lunga anche sull’importanza di Kiev, e dell’Ucraina in generale, in tutto il mondo panrusso.

Oggi continua a essere il club più tifato del Paese, nonché quello più conosciuto all’estero. Non è però difficile immaginare il motivo dello scarso seguito di pubblico che il campionato ucraino riscuote generalmente: sfide di livello medio-basso, competitività pressoché nulla e la percezione –  in parte anche giusta – dello stadio come di un luogo dove le tensioni sociali vengono a galla, sfociando quasi sempre in azioni violente. Non siamo certo noi a fare morali, ma analizzare il movimento calcistico nazionale senza tener conto di tutti questi elementi sarebbe errato.

Tornando alla sfida ed entrando nel vivo della cronaca, noto immediatamente come i supporter greci tengano lo striscione principale – quello degli Originals 21 piegato verso la parte interna del settore. Verrà sistemato oltre le grate solo durante i due tempi (anche se nella ripresa la polizia li costringerà a togliere tutte le pezze qualche minuto prima del fischio finale). Il motivo è abbastanza semplice da intuire: in tutto l’Est Europa è ancora abbastanza diffusa l’usanza di invadere il campo per arrivare sotto i settori avversari e sottrarre materiale. Basti pensare ad ultimi episodi simili accaduti, su tutti quelli che hanno visto protagonisti gli ultras della Stella Rossa e del Partizan, vincitori del personalissimo “ruba bandiera” rispettivamente contro i “colleghi” di Colonia e Thun.

Gli ultras di casa sono quasi interamente sistemati in una angolo tra la curva e quello che in Italia chiameremmo Distinto. Una bella “macchia” che finisce di comporsi una decina di minuti prima del fischio d’inizio e che si riconosce dietro lo striscione degli Ultras Dynamo. Di fronte al settore ospiti, invece, fa capolino un gruppetto composto da circa cento ragazzi: tante pezze e classico appiglio “aggressivo” da gruppo elitario. Scherzosamente mi viene da dire: delle tante cose belle copiate agli italiani, questa moda di staccarsi dal settore principale e formare dei gruppettini in altre zone dello stadio è sicuramente la più insensata. Mi ricorda tanto il nostro scimmiottare gli inglesi in tutte le loro storture e idiozie. Va da sé, tuttavia, che non conoscendo le vicissitudini interne della tifoseria di casa non posso inoltrarmi in giudizi e analisi approfondite, ma solo riportare quanto osservato.

Finalmente le squadre entrano in campo e i settori cominciano ad accendersi, malgrado di torce e fumogeni se ne vedano davvero con il contagocce. Non è certo la repressione della polizia ucraina o della Federazione a limitare la natura “pirotecnica” di queste tifoserie, quanto la mannaia della Uefa, sempre pronta ad abbattersi feroce quando si tratta di tifoserie dell’Est Europa. E sebbene sia vero che le stesse sovente eccedano negli atteggiamenti, l’organo calcistico più importante del continente si manifesta per quello che è: un contenitore di interessi e giochi politici. I problemi, dunque, sono sempre di più per chi nel “palazzo” risiede ai piani bassi.

Io sono contro le punizioni esemplari comminate senza desiderio di indagare alla radice del misfatto e prese da enti che spesso non entrano minimamente nelle singole culture nazionali, comprendendone difficoltà, usi e costumi. Oltre che periodi storici. È lapalissiano che non si possano accettare palesi manifestazioni discriminatorie o razziste, ma è altrettanto palese che in altre situazioni non si è volutamente interpretato alcuna fattispecie. Mi viene in mente l’atteggiamento aggressivo e censorio adottato nei confronti dei tifosi dell’FK Sarajevo che, qualche stagione fa, in un preliminare contro il Lech Poznan, vennero ripresi dalla Uefa per aver esposto degli striscioni in memoria del Massacro di Srebrenica. Allora, in questi casi, viene da chiedersi chi faccia politica: gli ultras o il governo del calcio?

Comunque, senza perdersi troppo in dissertazioni antropologiche (con quanta facilità si arriva a parlare di geopolitica partendo da una torcia!), cerco di tornare sui binari della tifocronaca. Benché sia complicato parlare solo di tifo, battimani e cori a rispondere quando ci sono due tifoserie che si fronteggiano con diversi cori di stampo politico, o quando nella curva della Dinamo sventolano imponenti bandiere rossonere dell’Esercito Insurrezionale Ucraino, fondato nel 1942 dal controverso leader dell’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini, Stepan Bandera, con l’intento liberare il territorio ucraino dai sovietici e riemerse prepotentemente durante la rivolta del 2014. Così come non passano inosservati gli stendardi dove campeggia il termine “Junta” o quelli con uno degli slogan adottati dal Battaglio Azov durante le guerre nella parte orientale del Paese: “Hasta la vista separatista”. Con chiaro riferimento ai separatisti delle Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk.

Al netto di questo, il modo di tifare degli ultras di casa non è propriamente robotizzato come avviene di solito nei paesi panrussi. Ovviamente permangono dei “tratti somatici” comuni, ma al contempo non mi sembra di assistere a una massa indistinta chiamata a recitare il copione, bensì a un popolo che segue con passione la propria compagine, soffrendo e gioendo per le sue vicissitudini. A livello stilistico i tifosi della Dinamo sono belli da vedere: tantissime manate eseguite dalla prima all’ultima fila, quattro sciarpate e tifo costante per tutti i 90′. Da segnalare inoltre una sciarpa dell’AEK bruciata in curva e una bandiera, sempre degli ateniesi, bruciata dal gruppetto posto nell’altra curva. Onestamente non so come e quando siano state prese.

Passando proprio ai tifosi ospiti, quella dell’AEK è una delle tifoserie storiche del mondo ellenico. Gli Originals 21 rientrano tra i gruppi più longevi e hanno spesso fatto parlare di loro, oltre che per il tifo, per le numerose intemperanze fatte registrare sul suolo natio. Come detto sono celebri anche per la loro smaccata appartenenza politica sinistrorsa e per le amicizie che da tempo immemore li legano ai gruppi di Marsiglia e Livorno.

A differenza dei dirimpettai in loro riconosco sicuramente dei modi di fare mediterranei, anche se ritengo i greci un cosmo alquanto complesso da descrivere dal punto di vista ultras. È un popolo che mi piace, per la sua tendenza all’anarchia e alla contrapposizione verso ogni forma di potere/sopruso, aspetto che spesso si ripercuote anche allo stadio. Ma anche per la passione incondizionata che riversa in ogni tipo di sport.

Tuttavia mi è capito spesso di non riuscire a decifrare il loro modo di intendere il tifo. Ho visto quasi tutte le tifoserie più significative del Paese almeno una volta all’opera e l’impressione è stata sempre o di grande stupore per la performance superlativa (è successo con Olympiakos e Aris Salonicco, visti a Roma anni fa) o di perplessità (come nel caso di Panathinaikos a domicilio e Paok Salonicco a Firenze) per una certa incostanza. In tutti i casi però mi è sempre sembrato che mancasse una capillarità nell’organizzazione della curva, cosa che è invece comune nel nostro Paese.

Ecco, questa sera, guardando quelli dell’AEK, qualcosa mi è sembrata invece più “italiana”. Cori abbastanza coordinati, tifo continuo e senza pausa e sussulti nelle fasi cruciali della partita. Comunque una bella prestazione.

In campo la partita non è certo uno spot per il calcio e alla fine, forte dell’1-1 di Atene, la spunterà la Dinamo grazie a un pareggio per 0-0. Le squadre vanno a raccogliere l’applauso di ambo le tifoserie, per poi ritirarsi nel tunnel degli spogliatoi.

La neve cade senza sosta e anche io, dopo gli ultimi scatti, decido di entrare in sala stampa per scongelarmi un pochino e poi avviarmi verso la stazione, dove mi attende il pullman per Leopoli.

La metro di Kiev continua ad essere un viavai di gente anche dopo le 23, mentre solo un po’ di fortuna e qualche intuizione delle indicazioni in cirillico mi permettono di non perdere il bus. Bus che peraltro bucherà nel bel mezzo della steppa, con una decina di gradi sotto lo zero, fermandosi a un’area di sosta dove gli altri passeggeri ucraini scenderanno tranquillamente senza giacchetto per fumare. Ma questa è ormai la prassi e io posso solo sperare di non ibernarmi.

Sta per finire la mia esperienza ucraina. Mi resta un giorno a Leopoli, stavolta segnato da una pesante nevicata che mi dà un degno addio.

Mi sono dilungato, sono stato logorroico e spero non pensante nelle mie esposizioni. Ma tornare in Italia senza scrivere nulla, senza riportare questo spaccato di vita vissuta sarebbe stato senza dubbio un peccato.

До свидания (arrivederci) e alla prossima!

Simone Meloni