Dopo i recenti episodi di violenza e teppismo negli stadi, le autorità serbe promettono misure drastiche. Ma è una storia che si ripete ormai da anni. Che cosa impedisce alla politica di affrontare efficacemente il problema?

“Che immagine di noi stiamo mandando al mondo?” commenta amareggiato il telecronista di fronte alle fiamme che si levano dagli spalti dello stadio Marakana di Belgrado. E’ la sera del 2 novembre, e si sta giocando il derby tra la Stella Rossa e il Partizan, le due maggiori squadre di calcio della città.

Nonostante l’enorme dispiego di forze dell’ordine, gli ultras delle due squadre sono riusciti a introdurre nello stadio petardi incendiari, coltelli e bastoni. Sono gli ultras del Partizan a dare inizio alla mischia. In pochi minuti la curva sud del Marakana è letteralmente in fiamme. Attorno ai falò si raccolgono centinaia di tifosi che saltano e intonano cori, e i getti degli idranti servono più ad accendere gli animi che a spegnere i focolai (video). Passano lunghi minuti prima che la situazione ritorni alla normalità e la partita possa proseguire.

Tolleranza zero: solo parole?

Come in molte altre città europee, anche a Belgrado scaramucce e animosità tra gli ultras non sono infrequenti. Tuttavia, la gravità degli incidenti del 2 novembre ha suscitato reazioni particolarmente energiche da parte dei vertici dello stato. Il vicepremier Aleksandar Vučić ha promesso che “la lotta contro questi criminali sarà spietata, e costituirà una delle operazioni di più ampia scala mai condotte nella storia del paese”. Vučić ha però subito aggiunto che non si tratterà di una caccia alle streghe, poiché “lo stato non perseguirà i tifosi, ma i delinquenti e gli spacciatori di droga”.

I legami tra le tifoserie organizzate e la malavita cittadina sono cosa nota. Quasi tutti i capi ultras, infatti, sono stati indagati per reati che includono il traffico e lo spaccio di stupefacenti, il possesso illegale di armi da fuoco, il racket e l’estorsione, il furto, e in alcuni casi l’omicidio. Gli scontri tra teppisti sono raramente motivati da ostilità sportive. Di norma, si tratta di regolamenti di conti tra fazioni in lotta, spesso all’interno di una singola tifoseria, che si contendono il controllo delle attività criminali e delle piazze della droga di Belgrado.

L’affondo di Vučić sembrerebbe quindi colpire nel segno. Ma molti commentatori non la pensano così; anzi, ritengono che il tono dissonante della sua dichiarazione – inizialmente intransigente ma poi subito mitigata – tradisca una mancanza di reale volontà politica nell’affrontare il problema. Come ricorda Gordana Andrić su BalkanInsight, quasi tutti i governi in carica dal 2000 in poi si sono formalmente impegnati su questo fronte, ma senza alcun esito. Due anni fa, il governo aveva anche promesso di istituire tribunali speciali e corpi di polizia appositamente addestrati, senza poi dare seguito all’impegno preso.

La radice del problema

Che cosa ha impedito in tutti questi anni al governo serbo di intervenire con la necessaria determinazione? Anche in questo caso, la risposta trapela dalle dichiarazioni di un leader politico. Questa volta si tratta del primo ministro Ivica Dačić, che pochi giorni fa ha candidamente ammesso quanto segue: “Adesso ci diciamo tutti stupiti dell’esistenza di gruppi mafiosi e criminali, ma per anni, se non decenni, tutti abbiamo ‘corteggiato’ quei gruppi; persino il mio partito ha condotto una politica benevole nei confronti del nazionalismo e dello sciovinismo, perché all’epoca era una prassi popolare per ottenere il consenso”.

La radice del problema, quindi, è la connivenza tra apparati politici e tifoserie organizzate (leggi a questo proposito l’analisi di Cecilia Ferrara). I legami più forti sono quelli con i partiti di orientamento nazionalista, che fanno affidamento su gruppi ultras leali e disciplinati per controllare il territorio urbano, offrendo in cambio la garanzia dell’impunità. Il fenomeno, però, è trasversale a tutte le forze politiche. Come scrive Gordana Andrić, “dai tempi di Milošević è una consuetudine che i partiti collochino dei propri emissari negli organismi direttivi dei club e delle associazioni sportive”. I casi di questo tipo si contano a decine. Quello più eclatante riguarda proprio la Stella Rossa e il Partizan, i cui due vicepresidenti sono entrambi ministri dell’attuale governo, nonché membri del Partito socialista. E’ però notizia di questi giorni la decisione del Partito progressista, guidato da Vučić, di ritirare i propri quadri dirigenti da tutti gli organismi direttivi dei club sportivi del paese.

Alla luce di questi legami di connivenza così diffusi e radicati, non stupisce che in questi anni le autorità serbe non siano state in grado di affrontare il problema con la necessaria determinazione. La situazione è resa ancora più grave dal clima di intimidazione in cui precipita chiunque provi a indagare questi legami. Il caso più eclatante è quello della giornalista Brankica Stanković, autrice del programma televisivo d’inchiesta Insajder. Dal 2009, anno in cui denunciò pubblicamente le complicità tra politici e capi ultras (qui la trascrizione in inglese dell’inchiesta), Stanković vive sotto scorta della polizia per timore di ritorsioni.

Tifo, nazionalismo e malessere sociale

Gli intrecci tra tifo, criminalità e politica costituiscono un grave problema per la società serba. L’antropologo politico Ivan Čolović, attento osservatore del fenomeno, ne propone una lettura sociologica. In un’intervista rilasciata a Kontrapress, Čolović afferma che la vera dimensione criminogena del tifo organizzato scaturisce dalle “idee politiche di estrema destra cui questi gruppi aderiscono e che contribuiscono a propagare”, idee che peraltro non differiscono molto da quelle di chi promette pubblicamente di perseguirli. Affrontare il problema degli hooligan, dice Čolović, significa “fare i conti con l’ideologia nazionalista, che è molto diffusa e profondamente radicata nella società serba”.

Che le élite politiche siano legate a doppio filo al mondo degli ultras, ricorda l’antropologo, non è una novità: lo disse già a suo tempo il leader paramilitare Arkan, quando nei primi anni ‘90 prese il controllo dei Delije, gli ultras della Stella Rossa. Oggi, continua Čolović, “le tifoserie organizzate si considerano baluardo della ‘serbità’, dell’ortodossia cristiana, della difesa del Kosovo, della tradizione, della virilità maschile, della patria, dell’esercito e della famiglia”. Ciò che ci deve preoccupare, quindi, non sono i singoli episodi di violenza, ma “la violenza organizzata sostenuta da motivi ideologici, come ad esempio gli attacchi dei teppisti contro la Parata dell’orgoglio gay”.

Un’analisi sistematica e approfondita del fenomeno probabilmente individuerebbe l’origine di questi comportamenti violenti nel malessere sociale. Se è vero, come sostiene Čolović, che “si tratta di esplosioni di rabbia e frustrazione che si verificano in ogni parte del mondo, laddove ci sono tanti giovani senza lavoro e senza speranza”, allora bisogna dare ragione a Ian Traynor, giornalista delGuardian, che nel 2010, in occasione dei disordini provocati dai tifosi serbi in trasferta a Genova, scriveva: “visto l’alto tasso di disoccupazione, l’assenza di prospettive future, 20 anni di guerra, il collasso dello stato, il bombardamento della Nato e la criminalità diffusa, non c’è da sorprendersi se la gioventù di Belgrado si comporta male”.

[Fonte: Osservatorio Balcani e Caucaso]