roma_bandieratotti“Pensavo che è bello che dove finiscono le mie dita debba in qualche modo incominciare una chitarra”. Non me ne vogliano i puristi della musica italiana se mi accingo a scrivere sciocche parole accomunando Fabrizio De André a Francesco Totti; in fondo io, neanche 25enne ragazzo romano come tanti, a mia discolpa ammetto di allietar spesso le mie giornate ascoltando, sognante, alcune delle parole più belle messe su carta dalla seconda metà del secolo scorso ad oggi. E quel numero dieci avrebbe fatto sicuramente breccia anche nel cuore di un genoano verace, timido della sua fede ma smanioso di essa come un bambino alle prese con i primi amori. Le scriveva sull’agenda, quasi a nasconderle dagli occhi indiscreti quelle sue parole d’amore verso il Grifone, Fabrizio De André, nato a Pegli – quartiere del ponente genovese la cui fascia litoranea è tagliata dalla Via Aurelia. Andata e ritorno sul binario Roma-Genoa, con il pallone destinato ad insaccarsi violentemente alle spalle di un incolpevole Lamanna. Allora l’ho pensato anche io che è veramente bello che dove finisce il piede destro di Francesco Totti debba in qualche modo – direi per grazia divina – incominciare una sfera di cuoio.

2 maggio 2016, stadio Marassi di Genova, Genoa due Roma uno. Minuto 76: punizione per noi. De Rossi la tocca piano con la suola, quasi per alleggerirne il peso, la caviglia impatta violentemente contro la sfera. Rete. Ancora lui. Non so se Faber da lassù sostenga ancora il suo Grifone, anche se la parte ingenua e fanciullesca di me continua a pensare che quella bandiera che sventola nella Nord, rappresenti niente meno che gli occhi del poeta e cantautore che proprio in un 2 maggio, ma di cinquantatré anni fa, debuttò sul palco del Primo Canale con “Il fannullone”, testo giovanile scritto con l’amico Paolo Villaggio. Né so se effettivamente avrebbe trattenuto il pensiero maligno di veder finalmente smettere quel ragazzo sulla via di un tramonto dai colori caldi come l’amore. Però so che Faber dalla Gradinata avrà assistito alle sfide fra il suo Genoa e la Roma. Magari quella del dicembre 1962, con la Roma di Giacomo “Core de Roma” Losi – raggiunto da De Rossi a quota 386 presenze in giallorosso proprio lunedì sera – fermata sul due a due dalla brigata di Gei, capace di salvarsi all’ultima giornata ai danni del Napoli.

Il 26 di maggio, quante ricorrenze. Anche nefaste, ma in linea con la storia della società capitolina, capace in questa occasione di farsi segnare anche da Panagiotis Tachtsidis. Però son certo che la storia di quell’ex giovane speranza, definito anni or sono svogliato e fannullone, avrebbe toccato qualche corda dell’anima di Faber. Totti, seduto ancora una volta su una panchina – come forse, a malincuore è giusto che sia ad una certa età – in mezzo a tutti quegli arrivederci prematuri, si sentiva molto meno stanco degli altri e lo ha dimostrato. Come De André in una lontana sera in quel di Portobello di Gallura insieme alla Puny, la prima moglie, annoiato dalle chiacchiere dei presenti e pronto a scrivere un testo, “Amico fragile”, talmente ingarbugliato, farfugliante ed oscuro da provocar un senso di meraviglia nell’ignaro uditore.

Ecco, il gol di Totti è come una poesia di De André. E una poesia di De André è la storia di un sessantaquatrenne allenatore di San Saba che ha deciso di imparare a memoria l’Enciclopedia Britannica, arrivando dopo “Mahrez, Majakovskij e malfatto” a meritarsi prima l’appellativo di matto, poi di eroe. Spesso sinonimi in questo strano mondo che dimentica tutto, anche le sentenze rivelatesi infruttuose.

Passerà anche questa stagione senza far male, perché ce lo ha confermato anche De Rossi a fine partita: il numero 10 dovrebbe rinnovare. “Amìala ch’â l’arìa amìa cum’â l’é”, guarda come arriva – avrebbe esclamato Faber – è la nuova stagione ormai alle porte. Lei sì che passerà facendoci male, portandosi via con sé quel numero dieci che ha incantato una città e la favola di un’allegra brigata inglese capace di issarsi sul trono d’Inghilterra. Per una volta, irripetibile. Come d’altronde una poesia di Fabrizio De Andrè.

Gianvittorio De Gennaro.