Che Roma sia una città particolarmente contorta e in affanno è cosa tristemente nota, soprattutto considerando il recente tetro passato che l’ha resa una enorme tartaruga poggiata sul dorso, incapace di tornare a camminare lentamente verso lidi migliori.

Ogni notte può osservare il cielo stellato, riprendendo una memorabile poesia di Carlo Alberto Salustri, ma questo riempirsi gli occhi di tenebre ne ha inficiato la capacità di guardarsi alla luce del Sole, come un costruttore in cima ad un edificato palazzo dalle fondamenta disastrate. La vista sarà pure bella, ma gli scricchiolii che provengono da sotto non promettono affatto bene.
E se l’ammirare la mia città in tutta la sua magnificenza dall’alto del quartiere di Monte Mario, collina alle spalle dello Stadio Olimpico, mi provoca una dolce sensazione di quiete, essa viene di colpo smorzata dall’udire il ruggito soffocato di chi è colpevole del più capitale dei peccati. Come l’untore di manzoniana memoria: l’uomo socievole, il deplorevole essere che ama la compagnia dei propri simili.
Ultimo ostacolo da eliminare per la realizzazione di quella società postmoderna devota all’aggregazione fittizia di mezzi televisivi e social network, le cui opinioni vengono tessute da una Penelope chiamata informazione, la quale crea e disfa, disfa e crea affinché tutto resti in un equilibrio gattopardesco. Un conflitto perenne fra potere e reazione ad esso, è così difatti che il primo alimenta la sua forza attrattiva.
“Là dove c’è il potere, c’è resistenza” affermava Paul-Michel Foucault nelle sue osservazioni in merito al potere, sostituendo la prospettiva classica della visione globale ad una percezione della sovranità dal basso e perciò piuttosto defilata.
La resistenza difatti, non deve essere soggiogata ma mantenuta in un’eterna contrapposizione che garantisca al potere di utilizzare strumenti eccezionali in contraddizione con il concetto di straordinario e, quindi, temporalmente circoscritto.
E qui, sul concetto stesso di provvedimento eccezionale, verrà a molti alla mente ciò che da mesi, tanti, contraddistingue l’impianto sportivo capitolino, soggetto a misure speciali per colpire ogni forma di aggregazione che, in un tempo passato, aveva costituito terreno fertile per nuove e giovani menti. Dopo aver svuotato le piazze, reprimendo con la mano armata della Legge ogni tipo di manifestazione spontanea, e lo Stadio Olimpico, per decenni luogo di volontaria unione di personalità talmente eterogenee da accomunare l’operaio della periferia all’avvocato della “Roma bene”, nelle ultime giornate è arrivato un ulteriore diabolico giro di vite nei confronti degli spazi autogestiti, sfruttando l’assist della delibera 140 della giunta Marino che ha totalmente ribaltato un paio di decenni di attivismo per il sociale, favorito dalla precedente delibera promossa dalla prima giunta Rutelli.
La settimana era iniziata con l’ennesima multa indirizzata verso chi aveva osato introdurre allo stadio – nel settore Curva Nord in occasione di Roma-Sampdoria – dei cartelloni con le foto di Alberto Sordi nei panni del vigile Otello Celletti, prima, e di Gigi Proietti nella celebre scena della contravvenzione nel film cult “Febbre da cavallo”. Entrambe accompagnate da uno striscione recante la scritta “Multras”, in aperta e ironica polemica con le misure repressive dirette verso il tifo capitolino; tali immagini sono costate oltre 160 euro ai responsabili di questo “ignobile” e “intollerante” gesto. Ironizzare sull’operato di chi da troppo tempo regna sovrano forte di un potere eccezionale protrattosi nel tempo, non è esercizio consentito (sic).
La Capitale d’Italia vive perciò un periodo di quello che il filosofo Giorgio Agamben definì a più riprese “stato di eccezione” – riprendendo e ribaltando la visione precedente di Carl Schmitt. Per Agamben, difatti, questo fenomeno non è per nulla eccezionale, in quanto la politica contemporanea spesso ricorre a decisione non legittimate o addirittura opposte alle norme costituzionali, al fine di fronteggiare nuove minacce all’ordine pubblico con l’intento di eliminare – o esiliare nel caso dei tifosi di Roma e Lazio – coloro i quali non possono essere integrati e incanalati nelle categorie di “buon cittadino”.
Nella giornata di ieri, tanto per impreziosire ancor di più l’operato degli Sceriffi capitolini, oltre trecento (300) uomini tra Polizia, Carabinieri, Polizia Locale e Vigili del Fuoco si sono presentati in via Serafini – zona Cinecittà – per sgomberare il centro sociale Corto Circuito al fine di sequestrare preventivamente un padiglione realizzato con tecniche ecosostenibili a sostituzione del precedente, colpito da un incendio alcuni anni or sono. Poco importa se neanche un anno fa una raccolta di firme era stata presentata all’assessorato al Patrimonio del Comune al fine di riconoscerne il valore sociale; in fondo non più di alcune settimane fa, in zona Colosseo, era toccata all’altra parte della barricata, un movimento di estrema destra, una medesima sorte. Sgombero coatto e mattutino e dozzine di persone sbattute in strada senza la benché minima possibilità di ottenere un alloggio provvisorio.
Una struttura, quella del Corto Circuito, che da oltre 25 anni contribuiva attivamente alla vita di un quartiere periferico abbandonato dall’amministrazione cittadina, nel quale si svolgevano le più disparate attività fra cui una palestra e una scuola popolare. Luoghi di aggregazione da combattere senza pietà, con un dispiegamento di forza pubblica che, se utilizzata per casi ben più utili, garantirebbe alla città un decoro da decenni ormai sconosciuto.
E il Comune di Roma nicchia difendendosi dietro al dito dell’inconsapevolezza, come fosse normale che le decisioni rilevanti su una metropoli spettino non alle autorità elette, ma a quelle paramilitari.
Ma troppo spesso il concetto di Legge fa realmente a pugni con quello di Giustizia, sbattuta al tappeto dai montanti di un avversario nettamente superiore. Avviene così che in periodi di crisi istituzionale ed economica, ci sia il bisogno di un escamotage grazie al quale ricomporre fittiziamente la frattura. Lo ha analizzato attentamente René Girard, osservando il fenomeno per il quale le singole rivalità degenerino rapidamente dando vita ad un desiderio unanime di vendetta, che si espande a macchia d’olio, nei confronti di un capro espiatorio, un gruppo di contestatori da debellare per ristabilire l’ordine puro e dominante. E la vittima scelta dalle Istituzioni si chiama aggregazione, che si parli di stadio o di piazze, di centri sociali di qualunque schieramento politico o gruppi sociali ai piedi di questa enorme piramide dalla cui cima si continuano a gettare dardi infuocati. Il giorno in cui crolleranno le basi, verrà giù tutto. E forse qualcuno si renderà conto che in fondo, seppur imprevedibili, le masse non sono quei mostri a tre teste da troppo tempo sotto assedio.

Gianvittorio De Gennaro.