Bucarest, la piccola Parigi. Così la chiamano i romeni. A Parma saranno invidiosi, ma tant’è: Tamberi lo ha insegnato in tempi non sospetti, che un oro lo si può anche dividere. Per il resto che dire? Così a Est non c’ero andato mai. Tirana al massimo. Ma l’adorabile Europa League (che Iddio l’abbia in gloria) spinge ancora più in là i confini del mio mappamondo: verso i Balcani, verso la terra del tanto vituperato Conte Vlad.

All’autista di Uber (mai prendere i mezzi pubblici da quelle parti: te lo dicono loro in tutte le lingue, anche a gesti!) lo chiedo subito senza tentennamenti. Ma quindi sta Steaua, è la vera o la finta? No, perché non si capisce. C’è chi dice di sì e chi no. Di certo c’è che ce ne sono due. Tutto cambiò vent’anni fa: quando l’allora unica Steaua, di proprietà dell’esercito – bellezze (?) del socialismo reale – fu “liberalizzata”. La rileva tale Becali, politico-imprenditore arricchitosi proprio quando, dopo il crollo, lo Stato ha venduto tutto (beni e terreni) ai soliti amici degli amici: solo che l’esercito non accetta, e quindi eccone due Steaua. Come i Papi ad Avignone.

Qual è la vera, qual è la falsa? Boh. Dipende che da prospettiva la si vede. I tifosi del Bologna sugli spalti prenderanno posizione (FCBS is not Steaua), l’autista pure: per lui, la vera Steaua è quella che gioca in serie B. E che per regolamento non può salire in A. Che follia! Dice ancora che l’FCBS è seguita da pochi bambini che applaudono. Oddio, avvocato: 30mila persone per una partita di giovedì pomeriggio, con una curva bella piena e partecipata, non sono proprio pochi bambini… che applaudono. Il fatto è che dopo un iniziale e strenuo boicottaggio, la battaglia sul lungo periodo ha perso slancio e più di qualcuno è ritornato sui propri passi. Richiamato dalle vittorie, le competizioni e gli avversari europei e l’impossibilità di vedere l’altra Steaua, quella che gode legalmente del nome e popolarmente dei favori del tifo, tornare a giocare nel massimo gradino del calcio locale.

Il punto è che nella vita tutto, o quasi, è relativo. Succede dunque che a seconda di dove la si guardi, questa è, o al contrario non è, la vera Steaua. È un atto di fede. La ragione c’entra poco. Quello che stupisce comunque, nell’incredibile Arena Nazionale (55mila posti e uno stadio che qui da noi ci sogniamo) è la tifoseria di casa. Obiettivamente bella, bellissima. Che nonostante la crisi di risultati sostiene a gran voce i suoi. Pur con un avvio di partita tremendo.

Sì perché il Bologna ne fa subito due, costringendo l’FCBS a inseguire. Il tifo di casa però non accenna a calare per niente: gli ultras stanno tutti nella parte a ridosso del campo, e questo di certo aiuta la compattezza e il tifo. I rossoblù invece (3mila, settori ospiti esaurito) sono dalla parte opposta in “piccionaia”. Cosa che sinceramente, tende sempre e comunque ad affievolire un po’ l’entusiasmo e di sicuro anche l’impatto sonoro.

Comunque la partita è bella sia sul campo che sugli spalti: l’Europa League dà mille piste alla Champions, garantito al limone, cit. Soprattutto perché presenta tanto, tantissimo Est Europa, dove la lobotomia e lo stile di vita americano sono ancora lontani dall’attecchire. Quindi ecco un tifo clamoroso, che spesso coinvolge tutto lo stadio. La pezza più bella? Transilvania Boys.

Ma non solo sugli spalti: il diverso modo di intendere il calcio, più vivo e più umano, lo si vede anche dietro le quinte. Dove ad una marea di persone, bambini compresi, è permesso stare in mixed zone: e dove giocatori e dirigenti passano per un saluto. Senza negarlo a nessuno.

Sul campo vince il Bologna, che in Coppa Uefa/Europa League non lo faceva dal 1998: un successo vissuto da tutta la città come festa collettiva, con Gianni Morandi presentissimo in tribuna, a fare da capopopolo dei suoi. Poi nel post-partita, ecco Bucarest centro trasformarsi in una succursale di via Indipendenza: con le maglia rossoblù ovunque. Specie nei locali dove la temperatura… è bollente.

Poi dopo l’abbuffata conclusiva, e giro tra chiese ortodosse, architettura post-post sovietica e case di dittatorelli vari, tocca il ritorno in Italia. Dolceamaro: perché il Belpaese è il Belpaese. Ma forse alcuni aspetti, nel modo di vivere il calcio, dovrebbe impararli e importarli da altri. In conclusione , che nessuno tocchi l’Europa League: faro della civiltà calcistica. Altro che Champions.

Stefano Brunetti