Assieme alle ansie per l’iscrizione al campionato o agli entusiasmi per una promettente campagna acquisti, le feste ultras sono uno di quegli eventi che, da Nord a Sud, dalle categorie professionistiche fino ai dilettanti, uniformano e caratterizzano le estati dell’Italia delle Curve. Riempiendo quel vuoto lasciato dalla fine della stagione agonistica o calmando la voglia irrefrenabile di tornare a calcare i gradoni di uno stadio. Non di meno tornando ad esercitare quell’importante momento di socialità che gli ultimi anni di restrizioni sanitarie hanno portato a sacrificare.

Fra queste, nei giorni 10, 11 e 12 giugno abbiamo avuto l’onore e l’onere di partecipare a Ferrara alla “Curva Ovest in festa”. Oltre ai momenti più “strettamente spallini” infatti, come la serata dedicata al calcio locale del passato, del presente e del futuro, nel pomeriggio di sabato 11, assieme all’avvocato Giovanni Adami, abbiamo animato il dibattito dal titolo “Perché ci diffidate” nella persona del sottoscritto direttore e del nostro corrispondente Sebastien Louis. Un’importante parentesi di riflessione e confronto di quella che in senso lato chiamiamo “repressione”, con i preziosi contributi tecnici legali di Adami e il nostro punto di vista di osservatori del mondo del tifo, locale e internazionale, avvalendoci appunto dell’interessante lavoro di Sebastien che spesso avete potuto leggere anche su queste pagine, fra le tifoserie del Nord Africa e non solo, il tutto egregiamente moderato dal giornalista Federico Pansini.

Se il movimento ultras deve alla sua attitudine all’azione molto del suo fascino sulle generazioni più giovani, la sua longevità e la sua sopravvivenza devono poi per forza di cose passare attraverso la capacità di saper valorizzare questo patrimonio umano, coniugandone azioni e pensiero al fine di riuscire ad allargare lo sguardo del gruppo o della Curva tutta al futuro, oltre il semplice e stretto impeto del momento, della quotidianità.

Su questo solco si muove senza dubbio la tre giorni ferrarese, dove i tanti momenti “ludici”, l’aggregazione attorno ad un boccale di birra, i cori, la musica, ecc. sono stati accompagnati da altrettante iniziative di più ampio respiro: mostre di sciarpe, fotografie, materiale informativo e dibattiti. Oltre quello su diffide e repressione di cui sopra, vale senza dubbio la pena ricordare la presentazione di “Più di Undici”, un libro collettivo scritto a più mani da ragazzi della Ovest di varie età, estrazioni, percorsi che – ognuno dal proprio punto di vista – raccontano una immaginaria trasferta europea a Bucarest. Anche se tante autobiografie di gruppi ultras contengono spesso più elementi fantastici di un prodotto dell’immaginazione come questo, si può comunque sostenere a buon diritto che mai un lavoro di questo tipo sia stato tentato da una qualunque tifoseria.

Se per prudenza o per pudore non vogliamo azzardare la parola “cultura”, è comunque un tentativo importante di comunicare, di arrivare all’esterno, a quante più persone possibili e far capir loro quanto variegato, interessante e diverso dal luogo comune sappia essere il mondo del tifo. Perché da sempre il problema più grande è proprio questo, che possiamo anche fare mille dibattiti e tavole rotonde o opere di sensibilizzazione su quanto ingiusta sia la repressione, quanto poco umano sia il cosiddetto calcio moderno, ecc. però il più delle volte è un mero parlarsi addosso. Una serie di consolatorie pacche sulle spalle che ci diamo fra noi senza mai riuscire ad uscire fuori dalla nostra zona di comfort, a rompere quella cortina di pregiudizi. Un po’ per una genetica refrattarietà a raccontarsi ed aprirsi agli estranei al mondo ultras e un po’ per la vittimistica tendenza a crogiolarsi nell’autocommiserazione.

Manca spesso l’autocritica ma più di tutto, forse, manca la consapevolezza che in tempi di sovraesposizione comunicativa, dove tutto di tutti (quindi anche di quel che ci riguarda) è ripreso da uno dei miliardi di smartphone presenti ovunque, immolato nel tritacarne della condivisione virale, se non ci raccontiamo, ci racconteranno. Quasi sempre male. Spesso in maniera parziale e distorta come da secoli fa l’informazione generalista che ignora la socialità ultras per parlare solo della cronaca, oltretutto basandosi esclusivamente sulle veline della questura. O sull’onda del moralismo indignato di un frammento video di cui non conosco antefatti o conseguenze. E va bene osteggiare l’alienazione del virtuale per difendere le prassi reali del tifo, va bene invitare ad abbassare i telefonini e alzare le mani per accompagnare i cori, però non si può lasciare che tutto piova addosso e non aprire nemmeno l’ombrello, solo per seguire una posa da duri e puri quando poi quella che piove non è nemmeno acqua.

In questo stesso contesto, seppur in uno scambio privato, abbiamo anche avuto modo di apprezzare il bellissimo libro di Giovanni Adami, noto tifoso già ultras dell’Udinese, che coadiuvando e alternando il suo punto di vista con quello di Matthias, per la controparte austriaca, ha ripercorso i vent’anni del rapporto di amicizia che lega appunto Udine con Salisburgo. Un racconto (bilingue!) molto intimo e privato con episodi e immagini inedite proprio perché custoditi all’interno di questa stessa cerchia che vive l’amicizia. Fortissima per forza di cose l’aderenza alla realtà ma, per queste stesse ragioni, la scelta editoriale è stata di limitare tiratura e distribuzione al solo novero degli stessi ultras udinesi e salisburghesi. Certo sarebbe piaciuto a tutti noi averlo ma al di là del rispetto per la scelta, possiamo anche aggiungere che l’importante è che si sia tracciata una linea comunicativa, che qualcosa in un modo o nell’altro sia rimasta e rimarrà nel tempo.

Eccoci dunque qua. A prescindere dalle scelte strategiche che restano personali di ogni singola realtà, l’importante è farsi e restare “corpo sociale”. Tramandare in qualsiasi modo qualcosa di sé al di fuori. Non è detto che si debba tirar su un evento di popolo come la “Festa della Dea”, idea che tra l’altro gli organizzatori hanno abbandonato. Si può legittimamente credere che la vasta massa non meriti l’impegno dei pochi singoli, si può preferire una cena fra pochi intimi o perseguire il tentativo di coinvolgimento su ampia scala come in quel di Ferrara, mostre o striscioni appesi intorno allo stadio, si possono fare libri o fanzine, semplici comunicati o estemporanei post sui social come fa qualcuno. Quello che più conta è che siano comunque azioni oculate, ponderate e non mero sbraitare che anziché destrutturare gli stupidi stereotipi finiscano invece per avvalorarli.

A margine della chiacchierata pubblica, si discuteva privatamente anche delle differenze “morfologiche” fra tifoserie nostrane e quelle del nord Europa, sul divario di età fra le due realtà, molto giovane la loro, molto anziana la nostra. E se dalla nostra parte tutto il sapere si trasmette attraverso la sapiente via della tradizione e della testimonianza diretta dei più vecchi ancora presenti sui gradoni, non si capisce come possa perpetuarsi lì da loro una certa continuità storica o operativa con queste nette discontinuità o, se vogliamo, in questo eterno ricambio di giovanissimi che in blocco vanno a sostituire i loro meno giovani predecessori. Volendogli dare un nome, tutto ciò non può spiegarsi altrimenti che nella fortissima propensione che hanno da quelle parti con la comunicazione, cosa che oltre che difendere le loro istanze immediate (vedasi successi nella cancellazione del posticipo del lunedì, tetto ai biglietti ospiti, depenalizzazione della pirotecnica ecc.), garantisce anche una continuità storica seppur attraverso una via meno diretta dal punto di vista umano.

In tutto questo, tornando al tema centrale dopo tanto divagare, tanto di cappello alla Curva Ovest di Ferrara per questa festa impeccabile nei suoi dettagli: stand gastronomici e cucine sempre in fermento, birra a fiumi, gonfiabili, maestre d’asilo e altre attività per bambini, traduttrici in LIS per i non udenti in tutti i dibattiti, musica dal vivo, informazione ultras e di interesse sociale (tazebao su reclusione per mancata firma, casi Aldrovandi, Chucchi, ecc.), mercatino ultras, vetrine per i gemellati. Come detto non è una linea da seguire pedissequamente, ci mancherebbe: ognuno secondo le proprie attitudini e le proprie possibilità, ma in un periodo storico in cui spesso ci si confina nell’elitarismo, in cui anche allo stadio prevale l’individualismo sul collettivismo, non si può che riconoscere il grande lavoro di chi – pur con tutte le difficoltà del caso – ancora crede, combatte e divulga l’idea del grande gruppo guida di stampo italiano. Quello che ci hanno copiato ovunque, paradossalmente persino nella patria dell’altro grande modello di tifo, quello inglese, che taluni antepongono come risposta alle tradizioni di casa nostra messe in crisi dalla repressione e dal calcio moderno.

Matteo Falcone