Il 24 settembre scorso, a ridosso dell’anniversario dell’omicidio di Federico Aldrovandi avvenuto 17 anni prima, in quel di Ferrara è andato in scena “Curve per Federico”. Evento voluto e pensato dalla Curva Ovest della Spal ma aperto a tutte le altre Curve che, nel corso di questi anni, con una pezza recante il volto di Federico, con uno striscione o in qualsiasi altra maniera si sono interessate al tema.

La portata non può che avere quel quid di epocale se si prepone e grossomodo raggiunge, come poche altre volte, l’obiettivo di mettere insieme tante tifoserie così trasversali fra loro per provenienza geografica, idee politiche o “filosofico-militanti”, amicizie, precedenti turbolenti, sport seguiti, ecc. Si sono insomma trovate spalla a spalla persone che poco tempo fa si erano scontrate allo stadio, gemellati, acerrimi rivali, gruppi di basket e di calcio, di Serie A e di categorie minori, chi ha uno storico fatto di manifestazioni e raduni ultras, chi li ha sempre avversati ritenendoli inutili, realtà destrorse ed altre all’esatto opposto, dalle città vicine come dai posti più lontani.

Mai prima d’ora o nessun altro come Federico era riuscito a mettere tutti indistintamente dalla stessa parte, a sostegno della stessa causa. C’erano in realtà riusciti anche Gabriele Sandri e Stefano Cucchi in una certa maniera, anche se, in quei casi – e per ragioni diverse – il discorso non s’era mai esteso a tutte le altre Curve in maniera così massiva o organica. A prescindere comunque, parliamo della stessa identica cosa, di storie di abusi da parte di chi, da garante dell’incolumità pubblica, si trasforma in carnefice. E per assurdo ci potrebbe anche stare, perché tali corpi sono composti da uomini e gli uomini sbagliano. Perché il monopolio della violenza detenuto dallo Stato contro ogni forza tendente a sovvertirlo, è necessariamente indiscriminato e violento altrimenti soccomberebbe. Il problema vero nasce quando questi errori di sistema si verificano e il sistema stesso anziché correggerli, anziché stigmatizzarli, anziché punirli, sceglie di coprirli, sminuirli, negarli. Allora nasce il dubbio che non sia un errore ma una variante del sistema ampiamente prevista dallo stesso. Oppure senza voler eccedere nella paranoia, di sicuro questi meccanismi creano un pericoloso cortocircuito democratico, un delirio di onnipotenza figlio dell’impunità garantita dallo Stato che crede di non dover o poter giudicare sé stesso non già per conflitto di interessi, ma solo (forse) perché così facendo restituirebbe l’immagine di un istituzione fallace, lusso che in tempi di crisi di legittimità imperante non possono concedersi evidentemente. Controsensi questi ai quali è doveroso, soprattutto da parte di chi come gli ultras ne ha pagato lo stesso salato prezzo, metterli di fronte, chiederne conto. Con la speranza utopica ma necessaria che tutto ciò non si ripeta mai più.

È stato questo più o meno il senso dell’intervento che abbiamo avuto l’onore di fare in quell’occasione (qui il testo mentre qui trovate il video). Condividendo il palco con personalità intervenute a vario titolo sul tema, nessuno ovviamente più autorevole o emozionante di Lino Aldrovandi e Patrizia Moretti, il papà e la mamma di Federico. Che al di là di toccare anche i cuori di quelli come gli ultras che il luogo comune vuole senza cuore, sono capaci ogni volta di una lucidità d’analisi capace di gettare luci nuove in ogni angolo di questa storia maledetta. Lo straccio di giustizia ricevuta con la condanna di colpevolezza dei quattro agenti indagati meriterebbe di essere seguita da quella verità che ancora continuano a rincorrere. Perché è questo che non dà pace, l’eterno perpetuarsi dei perché. Al di là della meschinità della giustizia terrena, che nei fatti ha ampiamente condonato con l’indulto la loro pena e riammesso in servizio i poliziotti dopo aver scontato i 6 mesi restanti (una dei quattro ne fece solo uno in regime carcerario sfruttando il decreto “Svuota Carceri” della Ministra Severino).

Oltre a Pedro e Marcello della Curva Ovest a fare gli onori di casa, il vero valore aggiunto di questa serata sono stati gli interventi sul palco di gente come Francesca Zanni, autrice del bellissimo podcast “Rumore” dedicato proprio al caso Aldrovandi. Poi Alberto Lunghini illustratore dalla cui matita è nata “La figurina di Aldro”, promossa insieme a Emiliano Nanni dell’associazione “Figurine Forever”. In sostanza dopo il grande successo della prima versione di questa figurina dedicata a Federico lo scorso 25 settembre, ne hanno pensata e realizzata una seconda quest’anno sempre a tiratura limitata e il cui ricavato delle vendite è stato destinato ad “Amnesty International”. In rappresentanza della nota ONG è intervenuta Iustina Mocanu, responsabile per l’Emilia Romagna. Binomio anche questo non casuale visto che Amnesty prese più volte e nettamente posizione durante il processo Aldrovandi. A proposito di eccessi nella gestione dell’ordine pubblico, c’è stato poi ancora spazio per Max Fanesi, fratello di Luca, l’ultras della Samb che a Vicenza fu ridotto in coma dall’ennesimo intervento scriteriato delle forze dell’ordine. L’avvocato Fabio Anselmo che curò sia la difesa nel processo di Federico Aldrovandi che in quello per molti versi analogo di Stefano Cucchi.

Tantissime le tracce ultras come detto durante la serata, dalle pezze con il volto di Federico di tanti colori diversi, di tante tifoserie diverse, esposte ovunque, agli striscioni, cori, bandieroni e copricurva. Se c’è però un grandissimo punto di forza in questo evento è proprio nella capacità di essersi aperto e mescolato alla società civile, alla gente comune, alle varie associazioni, persone, cittadini solidali al caso. Anche quando gli ultras hanno ragioni inconfutabili da esporre, come in questo caso, finiscono spesso, nel migliore dei casi, per parlarsi addosso fra loro, darsi consolatorie pacche sulle spalle a vicenda ma senza mai non dico instillare il tarlo del dubbio nell’opinione pubblica, ma quanto meno riuscire a rappresentare la propria versione dei fatti. Purtroppo la scelta dell’ultimo minuto di spostare la manifestazione dal Parco Coletta, un parco cittadino nei pressi della stazione, alla Fiera per il rischio maltempo, ha sicuramente influito sulla partecipazione generale che poteva essere di gran lunga migliore in un luogo così centrale in città.

Se la gente comune dunque poteva essere di più, onestamente anche gli ultras potevano e dovevano apportare ancora maggiori numeri, invece pur accorrendo in tanti in termini di varietà di gruppi, hanno per lo più portato una rappresentanza ciascuno quando era forse meglio dar fondo a tutte le proprie risorse per infoltire ancora di più le presenze. Certo è vero che c’era di mezzo anche un turno di campionato per qualcuno, come gli stessi gemellati anconetani impegnati a Pesaro. Senza contare chi continua ad essere recalcitrante a certi momenti di promiscuità, altri a cui non è piaciuta la prassi organizzativa, le modalità di invito o adesione o chissà cos’altro. Tutto legittimo in quanto soggettivo, ci mancherebbe. Anche l’acustica del padiglione della Fiera era pessima, se vogliamo, o la musica era forse troppa e/o qualcuno avrebbe preferito metterla in toto alla fine delle discussioni e dei vari interventi, anche se poi data la scarsa soglia di attenzione in situazioni simili, sarebbe stato ugualmente difficile tenere tutti attenti e schierati sotto al palco per così tanto tempo consecutivo.

Come sempre, comunque la si faccia, qualcosa si sbaglia. Solo chi non fa non sbaglia mai. I ragazzi di Ferrara hanno fatto e hanno fatto bene. C’è tempo e margini per far meglio, ma per ora un sasso nello stagno – bello grosso – è stato tirato. E con esso l’immagine riflessa in quello specchio d’acqua, quell’immagine stereotipata degli ultras dalla narrazione mainstream, è stata parzialmente ridisegnata. Questo già di per sé è un grande risultato. Poi da domani ognuno potrà ritornare nel proprio recinto ad esteriorizzare la propria riluttanza al potere come meglio crede, anche in forme più estreme se preferisce. Una cosa non esclude l’altra, le attività informali non per forza sono in antitesi o in contrasto con quelle formali o istituzionali. Sennò si dovrebbe persino rinunciare alla difesa durante un processo per reati da stadio, dichiarandosi prigionieri politici e ricusare l’autorità dello Stato come i brigatisti negli anni ’70. Fatto sta che quando piove ci si bagna lo stesso: forse sarebbe più saggio aprire l’ombrello.

Testo di Matteo Falcone
Foto di Gilberto Poggi e Luigi Bisio