Quando una realtà calcistica importante, come Piacenza oggi, sale dai dilettanti alla Serie C, sinceramente, non so se essere contento perché la promozione è ad appannaggio di una realtà con una vera tifoseria al seguito (per capire basti pensare a squadre come la Lupa Castelli Romani o Renate) o essere triste per la sorte dei supporter.
Pensandoci bene, per nobili piazze decadute a causa di gestioni societarie scellerate, il più delle volte la Serie D, o una categoria inferiore, è una sorta di ricreazione: niente biglietti nominativi, tagliandi in vendita il giorno della partita, meno restrizioni, libertà totale di tifare come e quando si vuole. È vero, la repressione esiste anche nelle categorie amatoriali, e spesso stare in Interregionale o in Eccellenza, se non peggio, vuol dire non vedere una tifoseria al proprio cospetto anche per mesi interi.
Ma cosa vuol dire, oggi, andare tra i professionisti? L’elenco è inutile per quanto dibattuto, e anche i derby sognati dai piacentini, come Cremona, Parma o Reggio Emilia, non è detto che si giochino con le tifoserie al seguito, senza contare la selezione naturale fatta da biglietti nominativi e tessere varie.
Categorie come la Serie D, e lo dimostra già la vicina Parma, sono un toccasana per tutte quelle realtà con un forte senso identitario: senza quel legame di sangue tra squadra, territorio e gente comune, il calcio perde significato. E tale perdita è molto evidente nei campionati professionistici. La Serie D non solo invoglia l’ultras a essere sé stesso senza tanti fronzoli né compromessi, ma riporta allo stadio il pensionato, forse anche sua moglie, il meccanico, il dipendente comunale e l’uomo che passa ore a parlare di calcio dentro al solito bar.
Osservando oggi i Piacentini, e non è la prima volta che lo noto, emerge proprio la forte impronta identitaria di gente che ama la propria terra. Altrimenti non si spiegherebbero esodi di massa per una partita di Serie D, per quanto valevole per l’accesso ad una categoria che qualche anno fa sarebbe stata persino snobbata.
Qualcuno potrebbe non essere d’accordo a parlare di esodo per una trasferta che vale una promozione, a poco più di 100 km da casa, in 1.000 e forse passa unità, ma, a mio parere, dati i tempi, una presenza del genere è oro puro. Inoltre c’è un discorso oggettivo di qualità e di impostazione del tifo.
I Piacentini sono dentro l’impianto, con tanto di striscioni appesi nelle ringhiere, già un’ora e mezzo prima della partita. Tanto per dare una dimensione alla presenza ospite, basti pensare che il Mapellobonate (società che rappresenta due comuni in provincia di Bergamo, Mapello e Bonate appunto, di cui ho già avuto modo di parlare un paio di anni fa) ha deciso, saggiamente, di assegnare quasi tutta la tribuna ai tifosi emiliani, mentre i locali si accontenteranno del microscopico settore ospiti, che per loro basterà e avanzerà (si parla di, più o meno, 150 tifosi). La tribuna stampa, composta da tavolini improvvisati e seggiolini in plastica, viene trasferita sulla pista d’atletica.
I piacentini cominciano con ampio anticipo la loro partita, intrattenendosi nel bar dell’antistadio e intonando i primi cori per scaldarsi. La gara è sentita e l’afflusso di tifosi emiliani è costante.
Almeno un quarto d’ora prima il settore dei piacentini può definirsi riempito. Spiccano tantissime bandiere e tanta gente munita della classica sciarpa. La prima linea ultras è composta da gente non propriamente di primo pelo, ma non mancano anche ragazzi partecipi. Uno dei particolari più suggestivi è l’unione di intenti tra il tifoso normale e l’ultras, fattore oggigiorno assolutamente non scontato.
Nonostante le tante bandierine bianche e rosse distribuite in tribuna, una giornata del genere non necessita di particolari coreografie, poiché la vera coreografia è rappresentata dal pubblico: tutti i fotografi e anche diversi giornalisti sono più concentrati su quanto avviene sugli spalti che in campo. L’entusiasmo che trapela sembra un’immagine di tempi andati, quando partite come questa erano la normalità assoluta e non l’eccezione. Si va dallo stendardo curato alla bandiera casalinga improvvisata, madida di passione e genuinità.
I primi cori sono assai potenti e costituiscono il naturale supporto a una giornata pensata con largo anticipo. I minuti di gioco diventano attesa di un qualcosa di inevitabile e predestinato, mentre il tifo resta incessante e intenso. Si gioca in una sola metà campo ma passano 27 minuti prima che Minincleri porti in vantaggio gli ospiti, per l’esultanza di un (quasi) intero stadio. Il primo tempo termina con una sciarpata molto riuscita anche grazie all’effetto delle tante bandiere.
Nella ripresa si aspetta solo la festa annunciata, e tutto passa tra un coro e l’altro. Magari non sempre il pubblico segue in massa i cori del nucleo centrale, ma il tifo non cessa mai. La volontà comune è di mettere questa giornata negli annali, e tutto deve essere più o meno perfetto. Un drone fotografico appare nel cielo luminoso di Mapello, ma si prende la sua giusta dose di improperi e gesti poco amichevoli. L’unica vera sbavatura arriva dal campo, quando in pieno recupero il Mapellobonate, squadra mai doma nonostante il penultimo posto, trova la rete del pareggio, per l’esultanza legittima del proprio pubblico.
Alla fine è festa per tutti. Con molto buon senso, i cancelli si aprono e il pubblico piacentino può invadere di gioia il campo e abbracciare letteralmente una squadra che, ancora in inverno (anche se solo per un giorno), ha già concluso il suo campionato.
Oggi si può pensare solo a festeggiare, e così è giusto che sia. Domani si potrà riflettere sul peso specifico e sulle proporzioni di ambizioni e limitazioni della libertà personale, compromessi e soddisfazioni.
Stefano Severi.