Da quanti anni sentiamo regolarmente parlare di “famiglie allo stadio” o “maggiore sicurezza presso i nostri impianti sportivi”? Il tempo in cui queste argomentazioni sono state vendute da istituzioni e stampa è forse direttamente proporzionale a quello utilizzato per produrre l’esatto contrario.

Salvo poi dare in pasto a tutta l’opinione pubblica – che in uno stadio non ha mai messo piede – mostri da demonizzare e verità artefatte che quasi mai tengono in considerazione le colpe o le mancanze di chi è tenuto all’aspetto organizzativo e gestionale.

Così, mentre nei salotti buoni si dibatte, tra un Mughini e un Giletti nel ruolo di professori, talune situazioni in seno all’afflusso, allo stazionamento e al deflusso dei tifosi nei nostri stadi sono rimaste invariate da decenni. Fiorentina-Roma è solo l’ultimo di una lunga lista che ha come comune denominatore il considerare il tifoso di calcio un essere di Serie B. A cui per un paio d’ore possono essere sottratti i più basilari diritti.

Abbiamo raccolto la testimonianza di Niccolò Mastrapasqua, che spesso si ritrova a scrivere anche dalle nostre colonne. Ieri si trovava nel settore ospiti e ha voluto condividere con noi le modalità con cui i tifosi romanisti sono stati fatti entrare al “Franchi”.

Quando arrivo allo stadio – esordisce – manca un’ora e mezzo alla partita. Piove, si gela e in prossimità del primo prefiltraggio c’è un’unica, enorme fila che si divide in prossimità dei due ingressi dove 2300 persone dovranno passare alla spicciolata per vedere la partita. Esatto, due soli ingressi dove si passa singolarmente e due steward che controllano biglietto e documenti.

Mi metto in fila e la gente è incazzata come sempre quando è costretta ad aspettare i tempi biblici di queste operazioni che – lo giuro a chi non frequenta gli stadi italiani – assomigliano a qualcosa di veramente inutile e ottengono come unico risultato quello di innervosire le persone. Fin qui, purtroppo, nulla di strano. E’ ordinaria amministrazione per i cretini che ancora vogliono vedere una partita di calcio dal vivo.

Poco dopo – continua – mentre mi avvicino ad uno dei due ingressi, mi accorgo che per arrivare allo steward che controlla i biglietti – meta finale della parte iniziale dei controlli (le tappe, oltre a questa, sono ancora tre) – ci si deve incanalare in uno strettissimo recinto di metallo (alto un paio di metri e senza una via di fuga) a forma di ‘L’, che secondo il genio sadico che lo ha ideato dovrebbe creare forzatamente una fila ordinata in vista del controllo.

Quando è il mio momento di entrarvi provo subito un fortissimo senso di disagio e paura. Non sono padrone del mio corpo, sono completamente schiacciato dalle altre persone e mi manca il respiro. Sono un uomo robusto, alto più di un metro e novanta e la pressione esercitata dalle centinaia di persone che tentano di entrare dove sono obbligate ad entrare è quasi insostenibile. Un bambino davanti a me è terrorizzato e viene tenuto sulle spalle dal suo papà che arranca cercando di portarlo verso l’uscita  piantonata dallo steward, il quale – nonostante le urla e i lamenti delle persone ad intervenire o perlomeno a velocizzare le operazioni per evitare che qualcuno ci rimetta le penne – non alza nemmeno lo sguardo come se i rumori provenissero da una stalla e a produrli fossero degli animali da fattoria. Come le bestie, manco alle bestie.

Quegli attimi sono interminabili – ammette – e sono letteralmente furente. Quando arriva il mio turno inizio a sbraitare contro lo steward, urlando come un matto per cercare di fargli capire il pericolo che tutti stiamo vivendo, quello che un essere umano normodotato dovrebbe comprendere autonomamente ancor più perché si trova lì, a due metri dalle persone che si lamentano. Non mi guarda nemmeno in faccia, perché spesso i tifosi non sono meritevoli neanche di un sguardo e non da oggi, e con gli occhi rivolti al mio documento mi dice di calmarmi.

Trenta secondi di controllo per ogni documento e due soli ingressi per 2300 persone, cazzo. Io continuo ad urlare chiedendogli di parlare con qualcuno con potere decisionale e il simpatico uomo in giallo mi ignora. Conto fino a dieci, ho perso la calma e questo non deve succedere perché il finale della storia sarebbe deleterio solo per me. A due metri dal primo controllo, una fila di steward perquisisce le persone. Sta diluviando ed è un po’ come se per entrare al cinema vi costringessero a bagnarvi perché è normale che sia così. E muti.

Sono costretto a svuotare le tasche, ad aprire un pacchetto di fazzoletti e a far verificare che dentro non vi sia un ordigno nucleare. Esamina fazzoletto per fazzoletto. Devo aprire anche la giacca e successivamente la felpa nonostante mi abbia palpato e sappia benissimo che non nascondo nulla. Ci sono tre gradi. Con tutte le cianfrusaglie delle tasche in mano, i guanti levati, lo zuccotto in tasca (e i capelli fradici) perché bisognava verificare che non avessi nascosto chissà cosa sulla capoccia, faccio cinque metri di numero (C-I-N-Q-U-E) e mi imbatto in una nuova perquisizione, questa volta effettuata dalle Forze dell’Ordine.

Esatto, a pochi passi di distanza due perquisizioni identiche.

Ci sarebbe da piangere e la rabbia che provo in quel momento è difficilmente descrivibile. Cambio tono, sono costretto a farlo. Mi rivolgo ad un dirigente della Polizia descrivendogli l’assurdo pericolo che stanno correndo le persone in fila chiuse dentro a quel maledetto recinto e mi dice che loro non possono fare nulla. Gli chiedo, quindi, chi può fare qualcosa e mi risponde che non sa. Domando a costui se fosse possibile far passare almeno i bambini e solo successivamente controllargli il biglietto e mi dice di no. Conto fino a 100 nella mia testa. Poi mi avvio ed entro nel settore (completamente allagato, qualcosa che neanche nel quarto mondo), triste, incazzato e stufo.

La morale di questo triste racconto è una: in Italia, nel 2019, si può morire per una partita di calcio. Si può morire asfissiati o schiacciati contro una rete metallica perché chi dovrebbe proteggerti non è in grado di organizzare una fila, come a Sheffield nel 1989, trenta anni fa. E, credetemi, se non è successo ieri è solo per una fortunata casualità”.

Al cospetto di tutto ciò mi permetto di porre in secondo piano la tifocronaca. Sottolineando come è assolutamente vero che solo il fato, in questi decenni, ha evitato sciagure della portata di Hillsborough. Soltanto io potrei citare almeno una ventina di situazioni in cui non solo non mi sono sentito tutelato dai preposti all’ordine pubblico, ma addirittura ho avvertito un’imminente sensazione di pericolo non controllato entrando o uscendo dalle gradinate.

Ecco, penso che il giorno in cui davvero si vorrà far evolvere il nostro calcio, in un’ipotetica lista delle priorità occorrerà mettere la considerazione di chi a questo sport permette ancora oggi di essere diffuso e amato in tutto il mondo: i suoi tifosi. E di conseguenza si dovrà far sparire quella stucchevole retorica che ci porta a riempire i giornali con i “cori di discriminazione territoriale” anziché con analisi sensate. Compiute da chi gli stadi li conosce almeno un pochino.

E non da chi dietro la scusa della “safety” o degli “scavalchi” è pronto a reprimere il pubblico in maniera becera e contro ogni logica democratica.

Testo Simone Meloni

Testimonianza Niccolò Mastrapasqua