I banchi gialli di Markale – forse il più celebre mercato di Sarajevo – sono già colmi di frutta e verdura quando l’orologio ha da poco superato le 6,30 e il sole si sta facendo spazio tra le colline che circondano la città. Leggere e vedere reportage sulle due stragi che tra il 1994 e il 1995 (con la città assediata durante la Guerra di Bosnia ed Erzegovina) provocarono oltre cento morti non mi aiuta certo ad osservare questo luogo con la dovuta tranquillità d’animo.
Sono qui per il derby, è vero. Ma, lo ammetto, sono qua ancor prima per Sarajevo. Per scacciare una volta per tutte quell’insita e involontaria sensazione di ansia che ogni volta avverto anche solo leggendo il nome di questo posto. Per anni – per troppi anni – la Capitale bosniaca è stata sinonimo di morte, distruzione e atroci crimini contro l’umanità per la mia generazione. La Bosnia noi ce la siamo sempre immaginata come un Paese avvolto dalla miseria, con le persone buttate per le strade o, a ragionar ancor più con la pancia, capaci soltanto di affollare le nostre metropolitane per chiedere elemosina.
Brutta bestia l’ignoranza mista agli stereotipi e alla paura. “Ma non è pericoloso?”, ha chiesto mia madre quando ha saputo la mia destinazione. Sì, pericoloso. Difficile spiegare che Sarajevo è una città che ogni giorno fa i conti con il proprio passato ma in egual modo ha saputo mettere le spalle dritte e rialzarsi in piedi. Esattamente come la gente di Markale, che all’epoca usava quel posto per ripararsi dai bombardamenti e nascondere le poche derrate alimentari presenti in città, e adesso fa invece sfoggio di grande laboriosità ed immensa voglia di vivere.
Sarà per questo che il tratto di strada percorso dalla congestionata frontiera di Slavonski Brod, in Croazia, e la Capitale ci mostra dal finestrino un Paese con problemi, chiari e inevitabili, ma bello, selvaggio e ricco di fascino. Malgrado tutto. Malgrado le costruzioni diroccate e le orribili e tossiche fabbriche di Zenica. Là, dove sei costretto ad alzare i finestrini anche con il caldo per non inalare pesantemente lo scarico delle fabbriche d’acciaio. Fu l’Imperatore d’Austria, Francesco Giuseppe, a volerne l’apertura sul finire del 1800. Una produzione che ha conosciuto l’impennata ai tempi della Jugoslavia mentre – di contro – produceva morte, rifiuti e degrado.
Quando superiamo il grande letto del fiume Sava un cartello ci accoglie: “Welcome to Republic of Serpska”, traslitterazione dell’insegna principale scritta in cirillico. Il melting pot etnico del Paese è noto persino a chi mastica poco la storia di questa zona d’Europa. Il passato recente parla chiaro e l’organizzazione attuale dello Stato prevede il rispetto delle diverse etnie che lo compongono, con particolare attenzione alle minoranze croate e serbe. Mentre il 48% degli abitanti è di fede islamica (i cosiddetti bosgnacchi).
Con la Jugoslavia di Tito, Sarajevo è stata a lungo designata come massimo esempio di convivenza tra i popoli ed esempio per l’integrazione tra genti storicamente poco inclini alla rispettiva sopportazione. Ciò, come detto, si è fragorosamente sfaldato negli anni ’90, dando vita al conflitto più cruento conosciuto dal Vecchio Continente dopo le due Guerre Mondiali.
Come sempre il calcio non può recitare un ruolo marginale in questi contesti. Basti pensare ai murales che ci accolgono non appena la nostra macchina entra nel territorio cittadino. Portano la firma di Horde Zla, il gruppo ultras al seguito dell’FK Sarajevo. Sono sparsi in tutta la città, assieme a quelli dei cugini dello Željezničar. Ma non si fondono mai, quasi a delimitare le zone di competenza.
Sarajevo è un rompicapo bello e buono. Il suo centro storico “bizantineggiante” e austro-ungarico mette quasi i brividi e fa ragionare profondamente, mentre si cammina tra la Moschea di Gazi Husrev-Bege e la Cattedrale del Sacro Cuore. Passando di colpo da un piccolo spezzone di strada in stile Budapest a quello agghindato in stile Istanbul. Ciò che invece resta uguale da un lato all’altro della città sono le chiazze rosse dipinte in terra: con queste il comune ha voluto simbolicamente marchiare “a sangue” ogni luogo in cui, durante l’assedio, caddero le bombe.
Il Ponte Latino – sul piccolo fiume Miljacka – infine ricuce fedelmente il tuo vivere quotidiano con le vecchie lezioni di storia alle superiori. A pochi metri da qua il 28 giugno 1914 venne ucciso Francesco Ferdinando, erede al trono d’Asburgo. Un episodio che segna simbolicamente l’inizio della Prima Guerra Mondiale. Altro tassello di un mosaico che marchia quest’area, altro passaggio fondamentale per la storia europea e, oserei dire, mondiale.
Eppure i bosniaci sembrano vivere tutto ciò con sornione disincanto. Gentili, cordiali ed accoglienti, hanno chiaramente bisogno di riscatto e di normalità. Sarà anche per questo che nel calcio sì, le tifoserie nazionali sono migliorate e hanno ingrandito le fila, ma difficilmente danno vita ad episodi critici o violenti. Prendiamo le due principali fazioni sarajevesi: di fondo non c’è un attrito etnico o politico e la cosa rende i rapporti testi solo a livello sportivo. Ovviamente, a queste latitudini, ciò rappresenta una discriminante non da poco.
L’esser arrivati solo due ore prima del fischio d’inizio ci costringe a una corsa sfrenata per sistemare i bagagli in ostello, preparare l’attrezzatura e dirigerci verso i luoghi dove si svolgono i cortei delle due tifoserie. Dico sin da dubito che non riusciremo a scattare quello dei Manijaci (gli ultras dello Železničar), dovendo così “ripiegare” sui supporter del Sarajevo.
La strada che ci porta dal luogo di ritrovo (Veliki Park) al vecchio stadio Koševo (anche conosciuto come Olimpico, dopo gli ammodernamenti relativi alle Olimpiadi Invernali del 1984) è quasi tutta in salita e si districa tra diversi cimiteri cristiani e musulmani. È quasi impressionante la quantità di questi luoghi disseminati dentro e attorno alla città. Una pesante postilla che sembra non voler far mai dimenticare la sofferenza cui Sarajevo è stata costretta, ma che spinge anche i suoi abitanti ad attraversarli con coscienzioso rispetto. Esattamente come succede al corteo, che in prossimità delle tombe cessa ogni tipo di rumore, camminando in silenzio.
Arrivati di fronte a una sorta di prefiltraggi, organizzati in maniera molto rustica, ci facciamo indicare l’ingresso per i fotografi. Ovviamente se il nostro inglese è alquanto deficitario così non è per gli interlocutori: come capita spesso nei Balcani, qua praticamente tutti spiccicano almeno due o tre frasi nella lingua di Sua Maestà, compresi polizia e steward (devo dirlo che in Italia spesso si fatica a comprendere il loro idioma materno?).
Ci inoltriamo all’interno dell’impianto e andando a prendere le pettorine, le mie narici si inebriano di un profumo quasi primordiale: è quello tipico degli spogliatoi. Delle lavanderie ancora in funzione nelle categorie dilettantistiche o presso le società di quartiere. È odore di calcio. È talmente bello e conciliante che verrebbe voglia di restare là ancora qualche minuto. Questo aroma restituisce l’idea di un qualcosa troppo spesso perso nel nostro Belpaese, oltre che la misura di un campionato ancora a portata di essere umano e non esclusivamente ad appannaggio di televisioni e tifosi clienti.
Saggiamo il tartan della pista d’atletica, mentre lo stadio va lentamente riempiendosi. Prima di ogni analisi voglio soffermarmi su un aspetto, quello numerico. È ovvio che per una città che conta circa 200.000 abitanti, due squadre che calcisticamente navigano sempre nei fondali, almeno a livello europeo, e un campionato davvero di scarso interesse sportivo, non si possono pretendere pienoni o cifre da capogiro in stile Derby di Belgrado (che è e resta una storia a parte, anche rispetto a tutto il circondario). Basta vedere le cifre registrate nel resto de campionato, con settori quasi sempre semivuoti in casa e in trasferta. Pertanto, i numeri non sono di certo alti (né da una parte, né dall’altra). Volendo fare una proiezione direi che in uno stadio dalla capienza di 37.500 spettatori, i presenti si aggirano attorno ai 20.000. Più o meno.
In classifica i Bordo-Bijeli (bordeaux-bianchi) di casa sono primi, mentre lo Željezničar occupa la terza posizione, dopo la brutta sconfitta casalinga con l’ultima della classe che ha prodotto qualche malumore di troppo, con tanto di invasione da parte di una decina di supporter Plavi (blu) e caccia ai giocatori. Nulla con cui fare scalpore da queste parti. I giornali la mattina seguente parlavano semplicemente di alcuni malumori calmati quasi subito senza bisogno dell’intervento della polizia. In Italia ci avrebbero aperto i telegiornali.
Dunque, sebbene il sold-out sia ben lontano, i presenti si fanno sentire e mostrano di avere un grande attaccamento a ciò che sportivamente rappresentano i due club. È una costante dei Balcani: la fame di calcio che pervade la gente. Non è un caso che dopo la dissoluzione della Jugoslavia, lentamente ogni singola Repubblica sia riuscita a migliorare le proprie prestazioni centrando o sfiorando di poco la qualificazione a Mondiali ed Europei.
Per dare la misura di questa “febbre” mi viene in mente l’atteggiamento di alcuni ragazzi dei Manijaci presenti in campo per fotografare la propria curva: chiacchierando vengono a sapere la mia provenienza romana, ricoprendomi di abbracci e pacche sulle spalle perché “Edin Dzeko è cresciuto nel nostro club! Per noi è un eroe nazionale!”. Ripenso al modo di seguire il calcio in cui ormai molti italiani sono caduti. Oppure al business e ai giocatori intenti a depilarsi in ogni dove. E sorrido sinceramente a questi ragazzi che nel pallone vedono ancora una genuinità di cui noi siamo purtroppo orfani.
Le squadre rientrano negli spogliatoi e nel settore della Horde Zla si sta preparando la coreografia per celebrare i dieci anni di uno dei sottogruppi: i Local Supporters. Le due fazioni cominciano a punzecchiarsi mentre trovo curioso quanto il tartan che circonda il manto verde sia davvero stracolmo di ogni personaggio: fotografi, inservienti, forze dell’ordine, semplici tifosi a cui è stato regalato un pass. Un sovraffollamento che ancora una volta lascia intendere la leggerezza d’animo con cui a queste latitudini si affronta il pallone. Sebbene questa leggerezza scompaia al fischio d’inizio, lasciando spazio alla frenesia e alla sofferenza di ogni singola persona per i propri colori.
In più di un’occasione i fotografi a bordo campo seguono i cori delle proprie curve. E al di là della recinzione, le tribune vedono semplicemente tutti in piedi.
Il tifo si mette in mostra prepotente, con i classici tratti distintivi balcanici: manate, voce baritonale e pirotecnica a non finire. Dal settore dei Maijaci di tanto in tanto parte un lancio di torce con la tribuna adiacente. A nessuno sembra preoccupare più di tanto: polizia e steward si limitano ad osservare. Del resto anche nelle tribune è presente la pirotecnica. Come fosse la cosa più normale di questo mondo.
Se devo esprimere un giudizio “marziale”: alla fine preferirò la prestazione dei padroni di casa, ma penso che questo sia dovuto anche al risultato (il Sarajevo vincerà per 2-1). La partita è infatti seguita con palpitazione e si nota palesemente come tutti ci tengano al primato cittadino. Gli ultras dello Željezničar vanno leggermente in apnea tra il finale di primo tempo e l’inizio del secondo, probabilmente per mandar giù il raddoppio degli avversari pervenuto allo scadere della prima frazione.
Che da queste parti abbiano un rapporto familiare con il fuoco e gli incendi non è certo un mistero. Pertanto inalare praticamente per 90′ il pesante odore di plastica e stoffa bruciata è la cosa più normale di questo mondo (seggiolini e sciarpe avversarie date alle fiamme spesso e con nonchalance). I Vigili del Fuoco adoperano di tanto in tanto i propri bocchettoni. Ma lo fanno con il sorriso sulla bocca.
Complessivamente è dunque una gara unica, che pur non raggiungendo i livelli di tifo/numeri di sfide più “storiche” come il Veciti Derby di Belgrado o di un Dinamo Zagabria-Hajduk Spalato, trasmette davvero una sensazione di armonia con quel mondo del calcio e del tifo che tutti amiamo. Va visto almeno una volta nella vita e ne vanno analizzati tutti gli aspetti di contorno.
Prendete la composizione delle curve, ad esempio: la maggior parte sono ragazzetti tra i 20 e i 30 anni. Quello bosniaco – benché le date di fondazione dei due gruppi sarajevesi risalgano alla fine degli anni ’80 – è un movimento giovane e ancora in espansione. Eppure ha attecchito abbastanza bene se si pensa che in un Paese così piccolo esistono altre realtà importanti anche a Mostar, Zenica, Banja Luka e Siroki Brijeg. È chiaro poi che ognuna di queste realtà sia radicata nelle proprie diversità culturali e spesso ricerchi nella militanza l’esaltazione della propria comunità o del proprio ceppo etnico.
Arriva il triplice fischio e di seguito la festa del Sarajevo, contrapposta al malumore di cugini. La polizia forma un semicerchio sotto ambo le curve, onde evitare possibili invasioni. Nel settore Sjever (nord), quello dei padroni di casa, in tanti si arrampicano sulle reti e continuano ad accendere torce, accogliendo i giocatori che si portano là sotto per ringraziare del sostegno.
Uscendo dal campo avverto ancora quell’odore di calcio che mi ha accolto inizialmente e decido di stazionare qualche minuto sulle verdi tribune dello stadio e poi fare il giro dell’intero perimetro per fotografare i murales di Horde Zla. Dalla collina di Koševo si domina parte della città. Mentre scendendo ci portiamo lentamente verso il centro storico, per cercare qualche posto dove gustare in santa pace un bel piatto di cevapcici, ottima carne speziata tipica dei Balcani e accompagnata dal pane locale e dall’immancabile birra.
I miei compagni di viaggio mi saluteranno la mattina seguente, mentre a me resta ancora un giorno a Sarajevo per poi puntare la bussola ulteriormente a Est, direzione Mosca.
La mia domenica a Sarajevo è una continua voglia di scoprire la città e vedere ogni suo angolo, malgrado il poco tempo a disposizione. Un timido sole tenta a fatica di splendere, mentre il freddo novembrino si fa evidentemente attendere.
Oltre al centro storico e al Castello (dove è stata posta la prima pietra della città, che infatti deve il suo nome proprio al termine turco “Saray”, che significa per l’appunto “castello”) non posso mancare visita al tristemente famoso Viale dei Cecchini (Snajperska aleja), la lunga strada che collega l’aeroporto al centro storico, palcoscenico durante l’assedio di ripetute sparatorie da parte dei cecchini appostati sugli alti grattaceli che la circondano. La percorro con altri due fini: visitare la stazione ferroviaria e la Torre Avaz e raggiungere lo stadio dello Željezničar, posto nel quartiere Grbavica.
Quest’ultimo confina esattamente con un’altra zona: Novo Sarajevo. Un quartiere costruito in perfetta edilizia socialista che durante l’Assedio fu tra i più colpiti della città e ancora oggi presenta diversi segni di quella ferita. Anche lo stadio dello Zelijo fu oggetto dei bombardamenti.
Grbavica pullula di murales dei Manijaci e non posso esimermi dal chiedere al vigilantes appostato all’entrata dello stadio se è possibile fare un giro al suo interno. Lui sorride divertito, quasi lusingato da tale richiesta, ed estraendo una chiave dalla propria tasca mi apre le porte del campo.
L’impianto è quantomeno particolare. Penso sia uno dei pochi al mondo ad avere la curva di casa completamente scoperta e a ferro di cavallo, mentre il settore ospiti può godere della copertura e di una posizione privilegiata per vedere la partita. Già questo me lo rende simpatico. Con la sua capienza di 13.000 spettatori è piccolo e raccolto. Anche qua respiro a pieni polmoni l’odore di spogliatoi, nei quali mi verrebbe voglia di far irruzione per vedere dove sono stese queste maglie e questi indumenti che emanano tale fragranza. Ma forse non troverei nulla, perché è semplicemente l’odore del calcio a farla da padrone.
Dopo aver fatto alcune foto mi porto verso l’uscita. Saluto il vigilantes ringraziandolo per la gentilezza e raggiungo la fermata del trolleybus per tornare in centro. Il buio sta per calare su Sarajevo, malgrado siano soltanto le cinque di pomeriggio. Le lunghe camminate iniziate dal mattino cominciano a farsi sentire e lo stomaco gorgoglia ricordandomi di non aver ancora pranzato. Ho in tasca ancora qualche Marco e non avrò bisogno di cambiare altri Euro per rimpinzarmi delle delizie offerte dalla cucina locale.
Lungo la Ferhadija (la strada che taglia in due il centro storico) gli ultimi mercanti cercano di convincere i turisti a comprare la propria merce. Ma oggi il passaggio di persone è alquanto flebile e qualcuno ne approfitta per chiudere prima i propri banchetti e tornare a casa.
Alcuni bambini continuano a girare freneticamente tra i tavoli dei locali chiedendo l’elemosina a ragazzi e signori intenti a sorseggiare caffè turco e çay (té). Andando in ostello passo per l’ultima volta di fronte al mercato di Markale. Adesso vuoto e spoglio da ogni cosa. Rimangono in piedi solo i banchetti. In piedi come Sarajevo e la sua gente, che due decenni dopo tenta di ricostruire il proprio presente e aprire gli occhi al futuro con dovizia e sacrificio. Lo stesso sacrificio che questa città ha ampiamente dato in termini di sangue e distruzione e che oggi posso accostare al bel ricordo che mi lascia andandomene.
Dopo tanto tempo provo dispiacere a lasciare alle spalle una città.
Simone Meloni