Inizia qui la mia stagione 2018-19. Da un poco scintillante campo della periferia calcistica, per la precisione il “Tullo Morgagni” di Forlì, dove si disputa la gara fra i biancorossi locali e l’Isernia, valida per il girone F del campionato di Serie D. Ogni anno che passa ho sempre meno voglia e ci metto sempre più tempo per ributtarmi a bordo campo. Forse è un caso, ma forse nemmeno tanto che proprio nella stagione di Cristiano Ronaldo debba farlo da un campionato minore. Ho sentito giornalisti in cerca di spicci per sopravvivere che hanno spacciato l’arrivo del portoghese come segnale di ripresa del calcio nostrano, per poi passare a ragguagliarci su come lo stesso si rilassi a mare con la sua donna o della villa scelta per dimora. Semiotica disperata per occultare il cadavere e continuare ad incassarne la sua rendita.
Checché dicano questi cialtroni, la puzza di carogna la sentono ormai tutti. Pensavamo di aver raschiato il fondo nell’estate del 2003, con la serie cadetta portata a 24 squadre per coprire le falle di un sistema che faceva acqua da tutte le parti, invece quest’estate la realtà ha superato ogni più pessimistica fantasia. E non è ancora finita, visti i ricorsi pendenti di Siena, Ternana, Catania, Novara e Pro Vercelli che hanno costretto a rinviare tutte le partite di Serie C in cui le stesse compagini erano nel frattempo impegnate. Il TAR ci ha aggiunto del suo prima sospendendo la B, poi smentendo se stesso e riaprendola. E non proviamo nemmeno ad immaginare cosa potrebbe succedere se i ricorsi dovessero essere accolti, con un effetto domino che risulterebbe un vero e proprio terremoto per il calcio italiano.
In un paese in cui dalla politica è stato impartito l’esempio del Commissario straordinario e della logica dell’emergenzialità per elargire ulteriori incarichi e poltrone, non ci si poteva certo attendere che i loro emuli “pallonari” con il culo al caldo varassero nulla più che riforme di cartapesta: nell’immobilismo più totale, dove tutti scelgono di non scegliere, continuiamo a guardare con la bavetta alla bocca modelli e programmazioni altrui, dovendoci poi accontentare di fascia unica per i capitani o squadre B per colonizzare e asservire ulteriormente il calcio minore a quello maggiore.
Con tutto questo schifo, una classica partita di provincia ha innegabilmente il valore di una vera e propria boccata d’ossigeno. Appena imbocco il lungo viale che porta allo stadio, mollo l’auto e vado a piedi, convinto di imbattermi nei soliti psicotici sensi obbligati o posti di blocco della polizia. Avvicinandomi agli ingressi mi rendo conto che avrei potuto parcheggiare quasi fin sotto ai botteghini. Presenza delle forze dell’Ordine molto discreta, personale cordiale, addetto stampa che mi accompagna a ritirare la pettorina: l’aria insomma è davvero quella del calcio popolare, dove è facile sognare, come avrebbe detto un Ramazzotti d’antan.
Guadagnato il terreno di gioco, la metà di gradinata riservata alla tifoseria di casa va pian piano prendendo posto e forma. Sulla balaustra principale ci sono due striscioni che ricordano più quelli di club, sulla balconata superiore lo striscione “Gradinata Forlì” che non avevo mai visto prima, mentre non vedo più alcune vecchie insegne del tifo biancorosso, segno che il tifo locale ha avuto una sua evoluzione negli ultimi tempi, anche se non so dire se ciò sia avvenuto in ragione delle vicissitudini calcistiche o altro.
I numeri nel mentre non sono aumentati, anche forse persino diminuiti rispetto all’ultima volta in cui li avevo visti all’opera. Un tamburo fa da sottofondo al loro tifo in maniera onestamente tutt’altro che piacevole da sentirsi, e ci tengo a specificare che sono un grande amante e sostenitore dell’uso dei tamburi. Comunque i ragazzi radunati in quella parte di stadio ci mettono tutto il loro impegno per sostenere i “Galletti” in campo. Gradevole anche il colpo d’occhio che offrono a livello cromatico, grazie ad un po’ di bandiere e bandierine biancorosse con cui salutano l’ingresso delle squadre in campo. In barba ai numeri, anche dal punto di vista puramente vocale fanno di tutto per farsi valere e se non sono certo potentissimi, di sicuro riescono a trovare una buona continuità.
Metereologicamente è una giornata più vicina all’estate ormai al suo epilogo che non all’autunno incombente e la posizione della tifoseria di casa, esposta alla ferocia del sole, la penalizza un po’ facendo loro perdere man mano mordente e, alla lunga, anche quella continuità iniziale. A mitigare ci pensano gli attori in campo, che quando la prima frazione deve ancora concludersi, chiudono già virtualmente la contesa grazie ad una doppietta di Alex Ambrosini, mio idolo indiscusso e punto fermo delle mia partite a “Football Manager” di qualche annetto fa.
Stante così la situazione, nel secondo tempo la squadra romagnola non può che provare ad addormentare la partita, cercando di tanto in tanto la sortita in contropiede per ammazzare ogni definitiva velleità ospite. Che onestamente credo avessero già abbondantemente imbarcato i remi in attesa del prossimo match, visto che non impensieriscono mai la retroguardia di casa. Con queste premesse, il tifo dei forlivesi continua un po’ sulla stessa falsariga della parte finale del primo tempo, in maniera molto blanda in termini di potenza e di continuità. Esultano ovviamente al goal di Prati che sigilla la partita e possono gioire per i primi tre punti che sono il viatico migliore per sognare quella Serie C malamente perduta due anni fa e sfiorata l’anno scorso.
Gli isernini invece arrivano a stretto ridosso del calcio d’inizio, sorprendendo forse le autorità locali che probabilmente non ne pronosticavano la presenza. Tant’è che il tradizionale settore ospiti rimane chiuso e gli stessi vengono fatti accomodare ai margini della tribuna coperta, separati da giusto un paio di steward dal resto degli spettatori di casa. Più per dovere che per necessità, visto che non ci sarà alcuna conflittualità fra le parti.
Numericamente la presenza ospite si attesta sulle 35 unità circa, che se non è un numerone altisonante, resta di tutto rispetto considerando distanza e categoria. Ma al di là di queste considerazioni che lasciano il tempo che trovano, dal punto di vista qualitativo la loro prestazione è da subito molto convincente. Piazzate le insegne principali (al di là di quelle ultras, segnalo “La Serpa ne more maje!!!” dal sapore tipicamente “Oldie”), i molisani si compattano in un bel quadrato e si producono in un tifo dall’impronta molto più ultras, con cori che variano dal melodico a quelli secchi, sempre accompagnati da braccia alte al cielo e susseguenti battimani, con una partecipazione ampia e continua. Molto originale il loro repertorio in cui, oltre ai “classiconi” del panorama italiano, sfoggiano alcuni motivi molto belli e che mai avevo sentito prima.
Il loro primo tempo è ottimo davvero, sempre ovviamente e proporzionalmente ai numeri, riescono inoltre a reggere persino il mortificante uno-due subito dalla loro squadra in campo. Nel secondo tempo invece, dapprima faticano a ricompattarsi dopo l’intervallo, attardandosi a bere al bar, poi riprendono il loro tifo che sarà sì sempre presente, ma diverrà molto meno continuo e potente rispetto alla prima frazione. A differenza dei dirimpettai sono al fresco sotto la tribuna coperta, ma in mancanza di un pur minimo cenno di orgoglio della squadra, perdono anche loro convinzione, anche se in definitiva credo non gli si potesse chiedere nulla di più di quello che hanno fatto. Fra un primo tempo molto buono ed un secondo mediocre, la media è quella di una prestazione sicuramente più che sufficiente.
L’ultimo quarto d’ora, assodata l’immutabilità degli eventi del campo e anche degli spalti, lo passo con alcuni vecchi amici di Isernia. Amici che nel passato remoto della mia militanza ultras erano miei gemellati ed è un piacere rivedere persone che non vedevo da una vita, con la stessa identica passione, stesso spirito di gruppo, invecchiati ma nemmeno troppo: sarà che essere ultras mantiene sempre giovani… L’ultima volta era il funerale del fratello di curva a cui poi intitolammo la curva stessa. Nel frattempo è morto anche il nostro gruppo, una sorta di eutanasia liberamente scelta, ma ritrovarsi ad abbracciare quegli stessi amici di un tempo, condividere con loro ideali altrettanto immutabili, chiacchierare piacevolmente come se ci fossimo salutati il giorno prima è rinfrancante. Dimostra che ci sono cose che il tempo non cambia, che c’è una sacca di resistenza alla degenerazione del calcio, qualcosa per cui ancora vale la pena seguire un pallone che rotola. E quel qualcosa di certo non è in vendita e non è qualcosa per cui dobbiamo ringraziare i Commissari Straordinari, i Presidenti Federali o i cani schiumanti intorno al tavolo della Lega Calcio per spartirsi brandelli di carne. Lo rappresentano e lo incarnano i tifosi, non i padroni del calcio.
Matteo Falcone