Avendo l’onore e l’onere di dirigere questa gabbia di matti che è “Sport People”, per deformazione aspetto sempre prima di sistemare tutti e tutto dell’attività della rivista, e poi penso alle mie esigenze. Girando campi, chiacchierando, anche leggendo o solo guardando foto, si disegna inconsciamente nella mia testa una rete di desideri, una scia di tifoserie da seguire, posti da visitare, promesse da mantenere, persone da salutare. Paradossalmente poi, più della volontà è il fato a scegliere per me: questa settimana, saltando di calendario in calendario, di categoria in categoria, mi rendo conto che tutte le partite nella mia zona, persino quelle appena sopra la soglia della decenza, sono state prese da altri corrispondenti; in momenti come questo, incomincio già idealmente ad elaborare un weekend da dedicare alla famiglia e più che per necessità, è per disperazione che butto l’occhio alla pallacanestro, uno sport per cui la mia idiosincrasia è nota a chiunque mi conosca. Così scopro che sabato sera, la Fortitudo Bologna gioca in casa la gara 3 degli ottavi di finale dei playoff di A2: è l’occasione perfetta per tornare ad ammirare la “Fossa dei Leoni”, che in verità avevo visto poche volte e sempre fuori casa. (E che, piccolo-spazio-pubblicità, qualche anno fa avevamo sottoposto ad una bella intervista che potete rileggere qui sul nostro sito.)

Non amo la pallacanestro, l’ho detto e lo ripeto ogni volta che ne parlo. Non me ne vogliate: da un punto di vista puramente tecnico-atletico è una disciplina che, obiettivamente, risulta cento volte più spettacolare del calcio, ma personalmente dello spettacolo m’è sempre interessato poco. Del calcio, fin dalla prima volta che sono entrato in uno stadio, da bambino, m’ha sempre stregato l’atmosfera, il crocicchio di personaggi e costumi popolari, la mutua solidarietà interclassisista, la sovrapposizione di anime a rivendicazione (seppur simbolica) di spazi, l’affermazione del potere dal basso che diventa parte determinante nel tutto. Uscendo dalla logica della fruizione dello spettacolo, del consumo – se vogliamo – si ribalta la questione ed è la pallacanestro a diventare imparagonabile al calcio.

Poi è anche una somma di vissuti, di fattori contingenti: sono nato e cresciuto in un periodo storico in cui toccare la palla con le mani era fallo, in una parte d’Italia dove mancavano persino alcuni dei servizi più elementari, figurarsi se poteva esserci un campo da basket a far da vettore di trasmissione di tale “malattia”. Lo sport popolare per eccellenza era appoggiare gli zaini o delle pietre per terra e immaginarle pali; la traversa la stabiliva arbitrariamente il portiere, fin dove arrivavano le sue dita in altezza, e se c’erano marcature contese, venivano risolte dalla superiore voglia di ritornare a giocare. Le partite che colpivano il nostro immaginario, attraverso qualche flash di “90° minuto”, andavano riscritte e rigiocate per strada, vestendo i panni degli alter ego infantili dei Rumenigge, dei Maradona, dei Platini di cui tutti, un giorno, sognavamo di imitare le gesta e non più solo per scherzo. La pallacanestro semplicemente non esisteva, era sport per borghesi, praticato nelle loro palestre, divise da noialtri da muri e rette d’iscrizione che non potevamo permetterci.

Il mio personale muro del pregiudizio invece, ha cominciato a subire qualche crepa quando mi sono trasferito in Romagna, al centro di un triangolo in cui la pallacanestro è una realtà sportiva ben diversa e più popolare, ben consolidata e di più lunga tradizione storica. Così, per curiosità, quando mi è capitata l’occasione, sono volentieri andato a guardarmi qualche partita, mosso più che altro dalla voglia di esplorare nuove frontiere ultras, consolidando di conseguenza convinzioni ma, allo stesso tempo, rendendomi conto di quanta bellezza perdevo arroccandomi dietro i miei pregiudizi.

Pur avendo smussato gli angoli della mia quadratura mentale, onestamente devo dire che, anche quando mi ritrovavo al cospetto di tifoserie convincenti, le ho sempre ritenute eccezioni alla regola, costituita invece da un modo di vivere il tifo molto meno polarizzato. Poche, pochissime le tifoserie che riuscivano a mettere assieme numeri, qualità, attitudine tali da renderle in certo qual modo paragonabili alle tifoserie calcistiche. La Fossa della Fortitudo invece, lo dicevo provocatoriamente (ma nemmeno tanto…) ad un amico commentando questa gara 3, non è paragonabile alle tifoserie calcistiche, ma – senza ruffianeria alcuna – è di gran lunga superiore alla maggior parte di esse. Certo è un azzardo fare un raffronto e valutare sullo stesso piano due realtà così diverse, però, davvero, non riesco nemmeno a ricordare da quanto tempo non sentivo e non vedevo una tifoseria di questo livello.

C’è anche il fattore strutturale che è molto importante: la cassa di amplificazione e l’eco forniti dal palazzetto chiuso, finiscoo spesso e volentieri per fomentare ancora di più i tifosi e anche il resto del pubblico, rispetto a quello del calcio ormai drogato dalle pay-tv, ha una partecipazione alla gara molto importante in termini qualitativi e quantitativi.

Ero talmente imbambolato dalla potenza e dalla bellezza del tifo, che c’ho messo più di due quarti ad accorgermi che stavo scattando nella peggiore delle modalità, ritrovandomi poi un pessimo materiale quando ho scaricato la scheda di memoria, una volta arrivato a casa. Ma le emozioni sono impagabili e vanno vissute, senza curarsi troppo del resto, tanto comunque, fra foto e video, un minimo di testimonianza credo di essere riuscita ugualmente ad immortalarla.

Per tornare (per l’ultima volta, lo giuro!) alle cose che odio della pallacanestro, mi fa letteralmente perdere il lume della ragione tutto quel castello posticcio di musichette, animazioni, invadenze vocali dello speaker, mascotte, ragazze pompon ed altre odiose americanate che mettono in ombra la partecipazione del pubblico. Nel tentativo di trasformarlo, da elemento attivo, a passiva cavia dei loro sottili progetti di marketing. Allo stesso modo detesto l’inno nazionale suonato prima di queste partite che nulla hanno a che fare con la rappresentativa nazionale. In questa sorta di nazionalismo coatto per via endovenosa, atto a farne, di tutti gli spettatori di pallacanestro, dei ferventi nazionalisti. Solo per un balzano editto regio. Senza alcun fondamento culturale di base.

A farmi godere come un maiale è la totale noncuranza della “Fossa” a queste cretinate, che continua per tutto il tempo a essere ciò che è, a cantare per sé e per la propria compagine, rifiutandosi di esser ciò che gli altri vorrebbero fosse, a piegarsi alla stregua di sottoprodotto delle mire degli scemi che dirigono e che pensano a queste cialtronate.

Metto piede sul parquet proprio mentre suona l’inno nazionale, in ritardo e trafelato per aver parcheggiato ad una certa distanza dal “PalaDozza”, sfiancato dalla lunga e sostenuta corsa – oltretutto sotto la pioggia – per arrivare in tempo. Intravedo uno striscione, ma non faccio in tempo a tirare fuori la macchinetta e arrivare a distanza necessaria per immortalarlo. I quattro angoli di palazzo sono alternativamente colorati di bianco e di blu, grazie al pubblico che indossa maglie dello stesso colore. Il tifo nei primi due quarti è letteralmente pazzesco, sovrumano oserei dire. Bisogna arrivare al terzo per dar loro una parvenza di normalità quando, mentre l’Aquila in campo prende letteralmente il volo per concludere a +25 sugli avversari, sentono venir meno la tensione agonistica e si rilassano un po’. Così i cori diventano più distanziati fra loro e meno potenti, tornando poi nuovamente e degnamente alti nell’ultimo quarto.

Battimani a ripetizione, due bandiere che sventolano continuamente, cori davvero originali rispetto allo stantio repertorio calcistico, di cui si concedono però qualche personale reinterpretazione. Sciarpate, striscioni (uno per i gemellati di Caserta, uno contro la Virtus, nel settore laterale), cori a ripetere, cori “a rispondere” fra settori diversi, cori cantati di spalle al parquet, manate “a onda”. Sono consapevole, il rischio concreto è quello di far passare il mio racconto per una sviolinata, ma lo spettacolo è stato davvero di una bellezza inaudita e clamorosa. Provare per credere. In tempi, specie per il calcio, di impoverimento numerico e di valori, vedere all’opera la tifoseria della Fortitudo è davvero un percorso spirituale che riconcilia e rianima l’inflazionato amore per il mondo ultras. Mi tolgo il cappello!

Ah, c’era persino un manipolo di siciliani in un angolo del palazzetto, ma non si può dire nulla di che: lo spettacolo era altrove.

Matteo Falcone.