Hanno deciso di lasciarlo così. Nel peggiore dei modi. Quasi come fossero tutti dei piccoli Longino, pronti a trafiggere il Cristo per verificarne la morte. Anche se il soggetto in questione di morire non ne vorrebbe proprio sentir ragione.

Perché quando un’emozione, un sentimento o una storia scritta attraverso il pallone vengono affidate a chi di sentimenti ne ha pochi, e a chi spesso li modula con le cospicue cifre tradotte sull’Iban, si finisce per rimanere intrappolati. E non è tanto demagogia. Non è facile spiegare a un ragazzino di 21 anni abituato a fare il calciatore oggigiorno, cosa voglia dire dover abbandonare la propria casa sportiva dopo anni e anni di frequentazione.

Impossibile forse fargli capire che non uscirne da vincitori – o almeno con l’onore delle armi – rappresenti una vera e propria onta. Difficile da cancellare.

Non glielo possono spiegare neanche le lacrime e la disperazione di chi questa serata se la ricorderà per settimane. Forse per mesi. Rimuginando su un’azione sbagliata, su un gol mancato e su un coro partito meno forte del previsto per spingere la palla in rete. Ricorderanno ai figli (e poi ai nipoti) che “l’ultima al Matusa è stata la più dura da mandar giù”. Quasi come se questo pezzo di cuore della Frosinone calcistica avesse voluto dare uno scossone alla sua gente, o forse è stato il contrario e la protervia di chi non ha capito il momento ora gioca un ruolo a dir poco fondamentale, in una città che per il pallone vive e di pallone parla tutto il giorno. In ogni angolo e in ogni negozio.

Il calcio non è certo una scienza perfetta. E proprio quella sua imprevidibilità, quel suo saper essere dolce e spietato, gli conferisce un’aura unica e infinitamente affascinante. Fondamentalmente il tifoso di calcio è uno a cui piace la sofferenza estrema ed è pronto a prostrarsi ai piedi della sua “amata” anche se certo di un tradimento o di una delusione forte. Che difficilmente si ricucirà nel cuore affranto.

Hanno trafitto al costato lo stadio Matusa. “Mancano 30 giorni, 20 ore e 10 minuti”, recita lo schermo luminoso nei pressi dei baracchini che, come ad ogni partita, si affannano a vedere salsicce, birre e panini. Fa la conta al tempo che resta a queste vecchie tribune, prima che vengano abbattute e al loro posto sorga un parco cittadino. Ma lo hanno trafitto prima, ferendolo a morte malgrado il suo cuore battesse ancora impavido. “Mancano 30 giorni, 18 ore e 10 minuti” recita sempre quel tabellone un paio d’ore dopo. Quando il parco è un po’ più concreto. Un po’ più reale. Un po’ più inquietante nel cuore dei tifosi canarini. Che sfilano disillusi tra Via Aldo Moro e Via della Mola Vecchia. Mani in tasca e sguardi persi nel vuoto.

Hanno perso. Non una semplice sconfitta. La gravità non sta neanche tanto nella follia con cui essa è maturata o all’esito che essa ha portato: eliminazione dai playoff e suicidio sportivo che rischia di intaccare seriamente il cammino di una società ambiziosa, che con l’inaugurazione del proprio stadio avrebbe certamente chiuso il cerchio aperto anni fa, quando sul Campanile della città vecchia fece capolino quel vessillo giallazzurro per festeggiare l’approdo alla cadetteria. Ciò che più sorprende è la delusione (la rabbia) per aver spezzato l’ultimo filone di una storia. Senza forse neanche capirla appieno.

I più romantici vorranno credere che il Matusa si sia ribellato. Abbia urlato a polmoni aperti: “Non mi lasciate”. Qualcuno l’ha visto piangere quando dall’estremità della Curva Nord hanno smontato le bandiere affisse là da anni. Ce le trovavi di lunedì come di giovedì. Mentre la città caotica tentava di smaltire il traffico, quei pezzi di stoffa sono stati là a rappresentare il sempiterno pensiero di chi la domenica ha affollato quelle gradinate.

Ho visto ragazzi, uomini di mezza età e bambini accasciarsi sugli scalini con i lucciconi. Proprio una mezz’ora dopo che il signore davanti a me, in Tribuna Laterale, “sventolava” le corna riprodotte dalla sua mano destra e indirizzate ora all’arbitro e ora a Castori. Un gesto apotropaico tanto “grezzo” quanto custode dei tempi che furono. Velocemente sono passate le centinaia di generazioni che si sono avvicendate su queste gradinate. Come in un trailer. La Nord, per qualche minuto, è tornata anche più bassa e stretta e dietro al settore ospiti ha fatto la sua ricomparsa quel pallone bianco, che chiunque abbia comprato i vecchi Supertifo ricorderà spiccare e avere la supremazia visiva sul resto del settore ospiti.

Ma si è trattato di un flashback. Di un momento estemporaneo che ha pervaso la mente di chi ha provato a fuggire da questa serata. Il Matusa ha emesso il suo ultimo verdetto. Ed è stato spietato.

E sì che per l’occasione i suoi occupanti ce l’avevano messa tutto. Lo avevano onorato come si deve. Avevano compreso sin da subito che per gli uomini di Marino non sarebbe stata una passeggiata. Avevano intuito quanto questa squadra rischiasse di divenire ostaggio di se stessa, dei suoi errori e della sua incompiutezza. Peccati capitale che uno sport come il calcio ti fa pagare. Sempre e comunque.

Hanno tifato come non gli riusciva da tempo. Dando un’idea di compattezza e ricordandosi di quanto quel “Fattore Matusa” abbia inciso nei successi degli ultimi anni.

I ciociari fanno della ruvidezza un proprio cavallo di battaglia, che si è tramutato per anni in un ambiente rispettato e difficile da espugnare senza colpo ferire.

In questa porzione di Lazio si è chiusa oggi una storia. Ha calato il proprio sipario inscenando un piccolo grande dramma sportivo. Fa parte del gioco. Tutti lo sanno ma chiaramente quando se ne diventa protagonisti si fa difficoltà ad accettarlo. È un po’ come quando si perde un parente ormai divorato dalla vecchiaia. Sebbene faccia parte del corso della vita. Anche se in questo caso forse si è staccato il filo dell’ossigeno un pochino prima.

Chissà ora se il vecchio Matusa reggerà l’urto delle ruspe. Se deciderà di andarsene senza lamentele e senza pianti. I suoi figli le lacrime le hanno già versate. Qualcuno vi è rimasto all’interno ben oltre il fischio finale. Un po’ scioccato, un po’ nostalgico. Perché se è vero che nella nostra giovinezza viviamo gli anni migliori, è altrettanto vero che quando si vede scomparire un simbolo estremo di questo periodo non si può che perdere una parte della propria anima. Non si può che invecchiare un pochino. Inevitabilmente.

E anche per me, nel mio piccolo – nel mio minuscolo girovagare gli stadi d’Italia – se ne va un pezzo di adolescenza. Qua è iniziato il tour delle “partitelle”. In un Frosinone-Pisa di tanti anni fa. Qua una sera in mezzo alla settimana vidi il primo stadio al di fuori dell’Olimpico. E per me che gli stadi rappresentano dei veri e propri templi, non sarebbe facile accettare neanche l’abbattimento del campetto dietro casa. Quando si abbatte un luogo sacro ci sono sempre degli dei che meditano vendetta per questo atto di blasfemia.

E se di sacralità vogliamo parlare – e con essa terminare questo pezzo – lasciatemi passare una riflessione: sessantotto tifosi ospiti, per una gara così importante, credo siano un numero davvero poco giustificabile. Neanche la partita infrasettimanale regge più di tanto. È vero che Carpi non è una metropoli, ma è pur sempre vero che per gli emiliani si giocava una partita storica (fino a qualche anno fa i biancorossi militavano in dilettanti, ora si giocano la Serie A per la seconda volta in tre anni).

Non conosco alla perfezione la loro situazione e non so se di base c’è stato qualche problema. Ma da quello che ho visto mi sento di dire che è mancata una vera e propria base di pubblico “normale”.

Le luci sono ancora accese nello stadio deserto. I palazzi da cui per decenni condomini e amici hanno assistito alle battaglie sulla fanghiglia prima e sul verde prato poi, sono ancora là silenti. Così come le scritte, le bandiere appese ai balcone e i negozi già adornati di strisce giallazzurre.

La delusione si taglia con un coltello e una bambina abbraccia suo padre con gli occhi ancora gonfi di lacrime. Stavolta dal Matusa è proprio tutto.

Simone Meloni.