Percorrendo gli ultimi chilometri della Via Casilina decido di allungare passando davanti a ciò che rimane del glorioso stadio Matusa. La vecchia tribuna coperta è ancora al suo posto. Un po’ scolorita e scrostata, ma fondamentalmente intatta e forse ancora vogliosa di ospitare tifosi indiavolati a ridosso del terreno di gioco. Delle curve e dei Distinti non c’è più nulla. Mentre le case a ridosso del vecchio impianto – quelle che  fecero scalpore in Serie A per i tanti tifosi appollaiati sui balconi – mostrano orgogliose numerosi drappi giallazzurri.

È qua il cuore di ciò che la Frosinone calcistica è stata e di quello che sarà. Perché qua sono rimasti intatti riti e sensazioni. Un’alchimia che difficilmente si ritroverà al nuovo stadio. Nessuno me ne voglia. Non parliamo solo di tifo organizzato, di ultras e di striscioni. Ma di una combinazione magica ed esplosiva che rendeva questo luogo un fortino quasi inespugnabile, nonché una vetrina sul passato. Che dal passato attingeva modi d’essere imprescindibili e determinati.

Il calcio è uno sport in continua evoluzione. Cambia. Come cambia il mondo attorno a noi. Eppure in alcuni suoi aspetti arcaici è irremovibile. E guai a farsene beffe e/o a minimizzarne il significato.

Nella settimana che ha preceduto questa sfida, a mio modesto avviso, in troppi hanno invece voluto sfidare la cabala. Delitto capitale per chi segue questo sport. Errore che spesso finisce per ritorcesi contro in maniera inesorabile.

Cominciando dalle ormai note esternazioni del sindaco Nicola Ottaviani. Il primo cittadino ha infatti pubblicamente dichiarato di aver chiesto alle istituzioni preposte il divieto di trasferta per i sostenitori foggiani, in maniera da favorire lo svolgimento di un’eventuale festa promozione, sfruttando anche la mancanza di obiettivi calcistici per il club dauno. La posizione della Nord giallazzurra e della maggior parte dei tifosi ciociari è stata subito in contrasto con lo stesso: “I foggiani devono venire”, questa è stata la linea, praticamente unanime, espressa a suon di messaggi sui social e striscioni esposti in città.

Entrando nel merito della questione – e ammesso e non concesso che un sindaco possa davvero risultar determinante sulle decisioni prese solitamente da Questura e Prefettura – le dichiarazioni di Ottaviani restano di fondo scorrette. Innanzitutto il calcio è uno sport che si gioca undici contro undici e con due tifoserie sugli spalti. Già la volontà di far venir meno uno di questi elementi rappresenta una falla sistematica. I tifosi italiani sanno bene cosa vuol dire un “divieto”. Ne subiscono a bizzeffe da anni, con ogni scusa e motivazione. Non c’è bisogno che anche un sindaco si metta a soffiare sul fuoco del proibizionismo.

Questo rappresenta un clamoroso autogol proprio per il Frosinone. Chi conosce il calcio e lo vive quotidianamente sa bene cosa sto per dire: il Foggia e i foggiani, sentendosi giustamente defraudati di un loro diritto, hanno reagito mostrando le unghie. I tifosi rossoneri, di conseguenza, hanno chiesto il massimo impegno ai propri ragazzi e una partita che in terra di Puglia poteva passare in cavalleria ha finito per diventare una crociata con il chiaro obiettivo di guastare la festa ai laziali.

Oltretutto tale atteggiamento è a dir poco in controtendenza con tutto quello che la Frosinone calcistica ha ottenuto in questi anni in termini di crescita. A cominciare dal nuovo stadio. Senza fare retorica voglio porre un interrogativo: com’è possibile che una simile problematica sorga ora mentre ai tempi del Matusa (incastonato tra le case e più lontano dall’autostrada) si siano giocati tranquillamente spareggi promozione con tifoserie numerose e turbolente o sfide di Serie A con ospiti del calibro di napoletani, romanisti, laziali, interisti, milanisti e via dicendo? Davvero 7/800 foggiani sarebbero stati un problema ingestibile e deleterio per un’eventuale festa? Mi si perdoni, ma non ci credo. Lo dico da anni: per me tutte le partite (anche Napoli-Roma o Nocerina-Paganese) si potrebbero giocare a porte aperte con un regolare servizio d’ordine. È stato dimostrato. In Italia quando si vuol garantire l’ordine pubblico senza troppi fronzoli, lo si fa e basta. E anche discretamente bene.

Personalmente quindi credo che un simile viatico a una delle partite più importanti della storia del Frosinone non sia stata certo propedeutica a rilassare gli animi.

C’era inoltre un’atmosfera strana all’interno dello stadio. Sempre parlando in termini cabalistici – nessuno me ne voglia – credo che realizzare una coreografia con una “A” gigante al centro sia quanto meno rischioso. Innanzitutto ti espone al facile scherno degli avversari in caso di insuccesso e poi, diciamocela tutta: va contro quel sacro principio scaramantico che pervade ogni tifoso nelle occasioni importanti. Mi ritengo una persona fortemente realista, ma quando entro a contatto con questo sport cade tutto il muro materialista eretto dentro di me, facendo spazio alle più apotropaiche delle sensazioni esistenti. Pertanto io sono convinto che determinati riti nel calcio contino eccome.

Ma non è solo questo il punto. Credo che mai come in questa sera si sia sentita la mancanza del “Fattore Matusa”. I giallazzurri sono scesi in campo impauriti, quasi spaesati. E questa sensazione si è immediatamente trasmessa ai 17.000 presenti, che hanno captato il pericolo. Ma non hanno reagito con rabbia, come ho visto fare decine di volte nell’impianto di Via Mola Vecchia. Sì ok, la curva ha anche fatto un buon tifo. Ma l’ambiente è stato sommesso. È mancato quell’incipit che faceva mordere le caviglie ai calciatori in campo e far sembrare stretto, piccolo e inospitale il campo alle squadre avversarie.

E sapete qual è il paradosso? Che con la tifoseria ospite questa rabbia sarebbe forse emersa prepotentemente. Il solo sentire un coro offensivo da parte foggiana avrebbe causato la reazione di quello casalingo, accendendo anche il tifoso medio ubicato in altre zone dello stadio. Su Facebook qualcuno ha scritto: “Erano meglio 1.025 tifosi del Foggia incazzati che 1.025 persone sedute e silenziose”. Vai a vedere che non aveva tutti i torti?

Ho visto sfumare scudetti, salvezze e promozioni al 90′. Ho visto coppe perse dopo finali dominate. So quale situazione si crea. Conoscevo quel silenzio attonito dopo il gol del 2-2 di Floriano. Così come le lacrime di chi qualche secondo prima già pensava alla festa. Il calcio non è una scienza perfetta, ma spesso ripete alcuni suoi step in maniera pedissequa. Il bello e il brutto, direbbero quelli bravi.

E allora cosa resta a chi lascia deluso il Benito Stirpe? Forse la consapevolezza di dover dare di più. Di recitare meglio il proprio ruolo. Perché di traguardi scontati nella vita come nello sport non ce ne sono mai. Perché se non si infonde rabbia e perseveranza alle proprie battaglie, non si può recriminare alla fine.

Testo di Simone Meloni.