Sì è vero, se quindici anni fa aveste detto a qualsiasi calciofilo frusinate che nel giro di tre anni avrebbe visto la Serie A per due volte, forse  avrebbe chiamato il servizio sanitario nazionale per farvi portare nel primo nosocomio disponibile. È vero, per una città come Frosinone – a 70 km da Roma – raggiungere certi livelli è stato non solo inaspettato, ma inebriante e per certi tratti stravolgente.

È vero tutto.

Così come è vero che quel primo anno di Serie A, racchiuso tra le “mura ciclopiche” del Matusa, ebbe come protagonista una tifoseria che accompagnò domenica dopo domenica una squadra sì, debole sulla carta, ma di gente tosta e tignosa. Che fino a un paio di giornate dalla fine se la giocò alla grande, mettendo in difficoltà un po’ tutti e lasciando intuire che a prescindere dall’esito finale, quel gruppo che viaggiava ancora sulle ali dell’entusiasmo della doppia promozione ce l’avrebbe messa tutti per restare scolpito nel cuore degli appassionati giallazzurri.

Che poi, fondamentalmente, è quello che i tifosi voglio. Sì, possono arrivare lacrime e disperazione, ma quando si è buttato il cuore oltre l’ostacolo la gente lo riconosce. E pure se lì per lì storce il naso, a distanza di anni ti ricorda e ti ringrazia. Non le importa se nell’almanacco di una data stagione troverà il nome della propria squadra in grassetto tra le ultime tre della classe.

Non disperate, l’eloquio iniziale è terminato. Ma non è casuale. Così come non sono casuali i fischi dello Stirpe al secondo gol del Genoa. Una rete presa male, con tanta sufficienza. Quasi a evidenziare il poco cuore messo sul manto verde da questo Frosinone versione 2018/2019. E allora qualcuno si chiede: ma si può fischiare dopo aver mangiato per anni la polvere della C2 e dei dilettanti? Non è un qualcosa di ingeneroso verso la propria storia?

Non credo. O almeno non lo credo più. Non mi trovo d’accordo.

Partiamo dal presupposto che il tifoso è un lamentoso cronico. Uno che borbotta, s’incazza, sbraita…ma poi la domenica dopo lo ritrovi lì. Ora, nel caso di fattispecie, il passaggio dal Matusa allo Stirpe ha portato sulle gradinate molta gente che – va detto per onestà – difficilmente si è mai sognata di metter piede al vecchio stadio quando arrivavano l’Albanova o la Frattese. Ma fa parte del gioco. Di contro però ci sono pure tutti quelli che quegli anni li hanno vissuti e quelli che si sono avvicinati pian piano. Non sta a me stilare una classifica sul merito dei supporter. Ma sicuramente posso dire che se fischi – dopo aver sostenuto comunque la squadra – per aver fatto un punto in sette partite, prendendo una caterva di gol anche in casa, realizzandone appena una su rigore e vedendo, già in settembre, un prospetto di campionato compromesso, ci può stare.

Se fischi dopo aver vinto un mare di scudetti e campionati o solo per una sconfitta dolorosa, allora il discorso è differente. Ma ad ogni livello il tifoso può trovare un motivo di disappunto. La questione è un’altra. Ed è pure semplice, ben al di là di qualsiasi facile retorica: il calciofilo manderà giù ogni tipo di disfatta, anche la più rovinosa, ma non accetterà mai un rendimento sufficiente o flebile dal punto di vista caratteriale. Soprattutto il curvaiolo, che in genere è quello che spende tempo e soldi per la propria squadra, e inconsciamente verso di essa si sente in credito. È un credito sentimentale, perché nella perversione che pervade il pubblico del calcio non c’è voglia di riavere i soldi indietro (quelli una volta pagata una trasferta o un biglietto sono già finiti nel dimenticatoio) ma una necessità ben più grande: sentir ripagato il proprio sentimento.

Lo so che nel 2018, con l’industrializzazione di questo sport, è un discorso al quanto aleatorio, ma è così. È così ovunque. Altrimenti come vi spiegheresti le tante formazioni non vincenti (spesso addirittura fallimentari) rimaste nei cuori della tifoseria x e in quella y? Regalare o trasmettere un’emozione certe volte può valere tre volte tanto una coppa o una salvezza.

Ho apprezzato, al termine di questa gara, Moreno Longo. Mi è piaciuto il suo volersi mettere davanti all’intera squadra per condurla sotto la Nord che nel frattempo dimostrava tutto il proprio disappunto. Nel calcio e nella Serie A di oggi, sono piccoli gesti da uomini. Soprattutto se pensiamo a tanti suoi colleghi che al primo fischio fuggono letteralmente sotto al tunnel degli spogliatoi, salvo poi mettersi in bella vista quando c’è da prendere applausi e pacche sulle spalle. Perché, oltretutto, è questa continua giustificazione alla superficialità, questa abitudine al non ricevere critiche o rimbrotti che ha reso il nostro calcio tanto brutto quanto scarso.

Scusate, sono cresciuto nell’epoca in cui per giocatori e staff era prassi andare sotto ai settori popolari oltre il risultato. Quando andare nei pressi di una curva dopo un periodo nero poteva essere davvero poco consigliato. Scusate, ma i miei miti sono gente come Malesani e non come Mourinho. E infatti oggi il primo è scomparso dai grandi schermi mentre il secondo lavora. Con scarsi risultati: il Triplete e il Porto sono lontani anni luce e prima o poi bisognerà pure dar conto dei propri insuccessi.

Il pubblico di Frosinone-Genoa ha dato un segnale chiaro. Ha chiesto a fine gara di tirar fuori le palle e di avere “gente che lotta”. Non ha neanche chiesto una salvezza o la vittoria. Capite qual è il filo sottile che divide la percezione del pubblico dalla sua reale anima?

Dall’altra parte i genoani ne sanno qualcosa del resto. Loro da anni sono prigionieri di una società che – alla stregua di Bologna e Torino – li ha resi indice di mediocrità calcistica. Pensate a quando Preziosi negò loro la gioia dell’Europa League per la mancanza della licenza UEFA. Quasi a dirgli: belli miei, non avete capito allora? Possiamo pure arrivare primi, ma se vengono intaccati i miei interessi io lascio lo scudetto alla seconda in classifica. Pena da pagare? Forse basterebbe chiedere ai tifosi di Saronno e Como.

E in questo i tifosi ciociari possono sicuramente ritenersi molto più fortunati dei loro colleghi liguri, potendo puntare su una società sana e – risultati attuali a parte – sicuramente più lungimirante nel fare calcio.

Testo Simone Meloni

Foto Antonio Carotenuto