Dopo alcune amichevoli disputate a metà anni 2000 e una gara di Serie A giocata al Matusa, Frosinone e Roma si affrontano per la prima volta allo stadio Benito Stirpe. È un ventoso sabato sera di fine febbraio, con la colonnina di mercurio che segna spietatamente zero gradi.

Quelle tra i ciociari e le “big” del campionato non sono mai state sfide particolarmente amate dal pubblico locale. In particolar modo da chi nella sua vita ha anteposto il sostegno ai canarini a qualsiasi altra cosa. Il motivo è presto detto ed anche logico da capire: come ogni realtà che storicamente ha sempre navigato tra C1, C2 e Serie D, in parecchi, da queste parti, hanno coltivato simpatie e sentimenti per i club di Serie A.

E non solo a livello di tifo “normale”. Andrebbero infatti menzionate le importanti sezioni che nei decenni hanno quantomeno popolato la Sud e la Nord dell’Olimpico.

Siamo a 80km da una città come Roma, che per forza di cose rischia di fagocitare tutto quello che la circonda. Figuriamoci se calcisticamente le vicende di giallorossi e biancocelesti possono non aver influito sulla vita calcistica di tutte le province della regione. È così normale e consequenziale che neanche occorrerebbe spiegarlo.

I risultati sportivi, le vittorie e il bacino d’utenza contano eccome. Per buona pace di tutti. Chi è più grande di me ricorderà senz’altro come qualche anno fa, negli stadi della Serie C o della Serie D, in tanti tifassero la squadra della propria città porgendo l’orecchio alla radiolina sintonizzata su “Tutto il calcio minuto per minuto”.

Ora, quali sono gli scalini che differenziano questo modus vivendi dalla presa di coscienza seria e inequivocabile per porre fine al cosiddetto “doppiofedismo”? Il primo è senza dubbio quello delle vittorie e dei risultati del campo, il secondo è un lavoro di “autodeterminazione” che resta in mano ai tifosi – agli ultras soprattutto – e il terzo e un’opera di coinvolgimento che può e deve partire dalle società di calcio che operano sul proprio territorio.

Gli ultimi quindici anni di calcio frusinate hanno avuto sicuramente tutti gli ingredienti per uscire da questa enpasse. E il cammino è comunque segnato ed evidente, con tutte le componenti che hanno marciato verso un riconoscimento del Frosinone Calcio come unica entità sportiva locale. Ora con iniziative nelle scuole, ora con il coinvolgimento dei bambini attirati più da una sciarpa giallazzurra che da un poster di CR7 (lo so, è difficile oggigiorno, ma la sfida sta proprio là!). Ovviamente, però, c’è ancora molta strada da fare.

Ecco spiegati, allora, gli attriti e i veleni esistenti prima, durante e dopo le partite con Roma, Lazio, Napoli, Juve, Inter e Milan.

Sono in tanti a provare – giustamente – fastidio per chi durante le gare contro uno di questi club veste i panni di tifosi gialazzurro solo per convenienza. Solo per poter inveire contro quello che è l’avversario “di un’altra guerra”. E attenzione, non mi riferisco al campanile (fattore che tratteremo tra poco), ma proprio al gusto di poter offendere, ad esempio, romanisti e laziali sotto mentite spoglie.

Mentre, facendo un discorso di appartenenza e territorialità, penso che poco si possa dire a chi nutre tolleranza zero nei confronti di gente che arriva “in casa altrui” pensando di poter esultare, camminare davanti alla Curva Nord con sciarpe di tutt’altro colore o insultare tutto e tutti in virtù di non si sa quale potere conferito da Dio. Salvo poi lamentarsi alle rimostranze del pubblico di casa.

Una notizia: funziona così ovunque. Da sempre. Il calcio – si mettano l’anima in pace le educande contemporanee – è contrapposizione e senso primordiale del territorio. Altro che logorree galoppanti dopo un coro contro Dzeko o uno sfottò ai napoletani pervenuto dal settore ospiti.

E qua veniamo al campanile. Personalmente ritengo un’eventuale rivalità Frosinone-Roma o Frosinone-Lazio un qualcosa di profondamente anti-storico e decontestualizzato da quello che sono sempre stati i rapporti tra le due città.

Ma c’è un “ma”.

Negli ultimi 60/70 Roma ha acuito il suo voler essere città nei confronti di ciò che la circonda. E diverse figure del mondo dello spettacolo e della televisione hanno contribuito a dipingere Frosinone e, più in generale, la Ciociaria, come serbatoio regionale di ignoranza e arretratezza. I “burini”, utilizzando un termine che nella Capitale viene spesso maneggiato fuori luogo, sono spesso diventati oggetto di scherno anche a livello calcistico (soprattutto tra le fila romaniste). È pertanto normale, umano e logico, che dall’altra parte della “barricata” non ci possa essere molta simpatia per chi a più riprese ti ha schernito o ridotto a stereotipo.

Ci sono poi altri importanti implicazioni di cui tener conto. Cose che vanno ben oltre lo sfottò e il campanile. Il lavoro, la scuola e i rapporti che comunque restano quotidiani fanno sì, come detto all’inizio, che questa non possa essere una rivalità percorribile. E poi, parliamoci chiaro, ognuno ha i suoi derby veri e propri.

Quello che resta è il normale risentimento per chi vede il proprio stadio “violato” dagli stessi concittadini che, di contro, dovrebbero essere i primi alleati.

A tal merito credo che massimo rispetto lo meriti chi ha deciso – ormai da diverso tempo – da quale parte stare. Perché, in fondo, non è mai simpatico rimanere con un piede in due scarpe.

Per quanto riguarda la gara di oggi, dunque, penso di esser stato alquanto esauriente sul suo filo conduttore. Un match che di certo – va detto per onestà – non ha visto le tifoserie brillare per quanto riguarda il tifo. Giallazzurri e giallorossi hanno alternato buoni momenti a minuti di stanca.

Discorso diverso in campo, dove la sfida regala 95 minuti avvincenti, con la Roma che passa solo allo scadere con un gol del fischiatissimo Dzeko. Finisce 2-3.

Testo di Simone Meloni

Foto di Simone Meloni e Andrea D’Amico

Galleria Meloni:

Galleria D’Amico: