Quando il mio pullman arriva alla stazione Tiburtina – dopo sedici ore totali tra andata e ritorno – ho ancora la forza per godermi la mattinata dal cielo terso, sedermi in un bar e riguardare tutte le foto della giornata precedente facendo colazione. Sono soddisfatto, perché un mercoledì qualunque mi ha portato a lambire il tacco d’Italia e conoscere due realtà che sinora mai avevo avuto modo di incontrare. In un viaggio del genere assume un’importanza particolare anche il contorno. Che nella mia fattispecie è rappresentato dai vecchi treni delle Ferrovie del Sud Est (FSE) e dal pregevole colpo d’occhio offerto dalle bellezze artistiche di Lecce, nonché dalla piacevole scoperta del centro storico di Galatina.

È un’idea nata casualmente, quasi accidentalmente direi, considerato che nel consultare l’inappuntabile app di Tuttocampo finisco per imbattermi nel calcio dilettantistico pugliese anziché in quello laziale e una volta appreso di questa semifinale non ci penso due volte, conscio di trovarmi di fronte a una classica sfida di nicchia. In cui, però, il pubblico non solo farà la sua parte, ma sarà la vera e propria “anima della festa”, pur essendo una Prima Categoria.

Riavvolgiamo il nastro: al mio arrivo nel capoluogo salentino, di prima mattina, opto prima per un giro nel suo centro storico, per poi salire sul convoglio delle FSE in direzione Gallipoli. L’ultima volta che ho preso uno di questi vagoncini azzurri – che girano ininterrottamente su queste linee dal 1978 – avevo da poco compiuto la maggior età e mi apprestavo a una tranquilla vacanza. Sono passati quasi venti anni eppure, almeno a giudicare dai sedili in pelle marrone e dall’odore di diesel che si respira al loro interno, nulla è cambiato. In realtà – va detto – da qualche tempo su queste linee sono in esercizio anche dei nuovissimi treni Minuetto, che hanno sicuramente svecchiato il materiale rotabile e reso più agevole il viaggio dei tanti pendolari (oltre che dei turisti), costretti già in principio a “subire” una velocità di crociera pari a 50 km/h. Come disse un vecchio amico salentino, ascoltando il mio discorso che, da malato mentale, esaltava queste linee ferroviarie secondarie (che poi nel caso di FSE non sono secondarie manco per niente, essendo il secondo gestore italiano per estensione): “Sicuramente è molto bello e caratteristico per un turista pensare di esser tornato agli anni sessanta. Pensa però chi è costretto a viverci e a fare i conti con un mondo che si muove negli anni duemila!”.

Sta di fatto che in un’oretta scarsa giungo a destinazione. Una ventosa stazione di Galatina mi dà il benvenuto, con il suo fabbricato tutto sommato ordinato, il suo cartello verde e i binari che all’orizzonte si stagliano verso il mare. Un’ultima occhiata all’obliteratrice, ancora di vecchia generazione, e poi la mia parafilia ferroviaria può considerarsi soddisfatta.

È ora di pranzo. Strade e negozi sono chiusi, così mi inoltro per le viuzze del centro in solitaria, potendomi godere l’armonia di questo paese di venticinquemila anime, posto proprio al centro del Salento e piacevole da visitare. Siamo in una delle zone dove affondano alcune delle radici storiche più interessanti del nostro Paese. Basti pensare che il nome Galatina deriva dal greco Galathena (riferito a gala-gàlactos, cioè latte), per indicare la fecondità e la fertilità di un’area ricca di pascoli e produttrice di latticini. Dallo sguardo sul passato si riesce sempre a capire molto di quello che una particolare fascia geografica sia stata e di ciò che col tempo è diventata.

A proposito dei legami con la Grecia e con la sua millenaria cultura, non si può che restare incuriositi dal dialetto grico, parlato in nove comuni limitrofi a Galatina. Si tratta di una vera e propria “isola linguistica”, dove si mischiano greco antico, greco bizantino e italiano. Conosciuto anche come Katoitaliótika (“basso italiano”) è ormai parlato perlopiù tra gli anziani, ma ci permette senza dubbio di tastare con mano un retaggio culturale ormai remoto.

Per quanto riguarda il piccolo comune galatinese, invece, vale la pena ricordare come fino al 1861 sia stato conosciuto col nome di San Pietro in Galatina. Questo perché la leggenda narra che nel suo viaggio da Antiochia a Roma, San Pietro si sia fermato qui. Riconosciuta, previo regio decreto, città dal 1791, Galatina porta oggi gli eleganti “segni” della dominazione delle varie famiglie nobiliari che si sono avvicendate, nonché quelli degli Angioini e dei Borbone. Un aspetto che ricalca gli altri abitati salentini, con un centro storico ordinato e sgargiante. Profondamente barocco e in grado di riverberare tutti i passaggi antropologici e architettonici: attraverso le sue porte, la Torre dell’Orologio e le sue chiese in cui si celano notevoli affreschi.

Se visitare ogni singolo luogo rappresenta ormai per me l’incipit per leggere, studiare e accrescere il mio sapere in fatto di storia, cultura e tradizioni, arriva sempre il momento in cui la Dea Eupalla si fa sentire. Ricordandomi che il calcio d’inizio si avvicina e un pizzico di curiosità la debbo rivolgere anche all’aspetto calcistico, che poi spesso intreccia le proprie radici con quelle della città. Soprattutto se di mezzo ci sono gli ultras.

Per chi mastica un pochino di calcio “minore” quando dici Galatina dici per forza di cose Pro Italia. Nome che dal 1917 rappresenta la città sul manto verde. Una storia ultracentenaria, che a cavallo tra gli anni ’30 e i ’40 vide lo scioglimento del sodalizio in luogo di due club (la Fiumana e la Fascista) che verranno riunificati solo dopo il secondo conflitto mondiale, riappropriandosi della dicitura originale.

Una storia che, negli ultimi anni, ha seriamente rischiato l’oblio a causa di fallimenti, gestioni deficitarie e carenti risultati sportivi (in pieno stile italico, insomma). Di fatto i biancostellati mancano dalla Serie D ormai da ventidue anni, mentre nelle ultime stagioni – a causa di gravi problemi societari – la compagine è stata costretta a ripartire diverse volte, barcamenandosi tra Seconda e Prima Categoria, dopo una lunga militanza tra Eccellenza e Promozione. Lo storico nome Pro Italia è attualmente congelato e inutilizzabile a causa di contenziosi legali, così l’attuale club cittadino ha assunto l’appellativo di ASD Galatina.

Se i mitici anni ottanta – che da queste parti significano cinque stagioni di Serie C2 tra il 1982 e il 1987, anche grazie a calciatori del calibro di Cosimo Francioso e Luigi De Canio – sembrano lontani e difficili da ricalcare a livello calcistico, almeno a breve giro di quadrante, c’è da dire che hanno però lasciato in eredità una notevole tradizione popolare. I numeri registrati quest’anno allo stadio “Giuseppe Specchia” – che deve il suo nome al primo, storico, presidente dei bianconeri – parlano chiaro, con mille spettatori quasi sempre raggiunti e una partecipazione che, senza retorica alcuna, va ben oltre la categoria. Del resto il cartello nero con la scritta bianca “Domenica tutti allo stadio” che si scorge proprio all’entrata del centro storico, è un segnale di come Galatina abbia a cuore le sorti della propria squadra. E da ammiratore delle realtà provinciali, non può che farmi piacere.

Avere tradizione in ambito calcistico spesso coincide anche con l’avere una storia di militanza curvaiola, che negli anni è riuscita a instillare la cultura da stadio in un piccolo centro che, come detto, non conosce glorie pallonare ormai da tempo immemore. In principio furono i Leoni della Ovest a portare in città l’impostazione ultras. Un gruppo nato in concomitanza con la Serie C e attivo fino ai primi anni duemila. A testimonianza della sua storia e per mano di alcuni vecchi militanti, quest’oggi si scorge tra gli striscioni della tifoseria galatinese la pezza della Vecchia Stirpe. Negli anni novanta, accanto ai Leoni, nascono i Park Kaos, un gruppo composto da nuove leve. Molto attivi e caratterizzati da un modus operandi guascone ed esuberante.

La caduta nei meandri del dilettantismo pugliese produce diversi avvicendamenti sulla balaustra dello Specchia, tra i quali vanno sicuramente menzionati la Brigata Nera e il Commando Ultrà. Fino ad arrivare ai giorni nostri, quando un ottimo mix tra vecchi e ragazzi rimpolpa le fila della tifoseria e porta alla formazione di un gruppo unico, sotto l’insegna dei Galatinesi 2019. Se è vero che le categorie in cui la Pro Italia si è impantanata negli ultimi anni, sportivamente possono non essere il massimo, è altrettanto vero che per la formazione dei ragazzi più giovani – per la cosiddetta gavetta – è forse una manna dal cielo. Anche perché la Puglia (assieme alla Campania) è una regione molto particolare, che regala tifo organizzato anche negli ultimi gradini della piramide calcistica e in cui le trasferte difficilmente sono scampagnate. Soprattutto quando hai un nome in fatto di stadio e puoi essere mal visto a priori in qualsiasi campo.

Inoltre c’è il “solito” meccanismo di amicizie e rivalità che – assieme alle varie antipatie interne alla regione, legate al territorio, leggasi Salento vs resto della Puglia – può sempre innescare fattori esterni. L’arrivo dei supporter grottagliesi oggi, con un grande stendardo anti Manduria, ad esempio, ne è il fulgido esempio. Con i biancoverdi, infatti, gli ultras locali hanno un gemellaggio ormai solido, così come sentito è quello con i neretini, oggi presenti con ambo le sigle della tifoseria organizzata.

L’arcinota connotazione politica della tifoseria galatinese ha chiaramente dato luogo anche a inimicizie basate sull’aspetto ideologico, come dimostrano i tafferugli registrati a Fasano qualche stagione fa. Mentre di natura prettamente territoriale e ultras sono le rivalità con Maglie e Tricase. Un quadro assai interessante in questo lembo di Salento, che conferma la vocazione da stadio ormai ultratrentennale per diverse realtà. Peraltro il nome di Galatina è avvicinato ormai da diversi anni alla Nazionale, seguita fedelmente dal tricolore su cui è impresso il suo nome.

La Coppa Italia è un viatico fondamentale a questi livelli. La sua vittoria permette la promozione diretta, che per il Galatina significherebbe riconquistare il livello calcistico perso un anno orsono. Di fronte c’è un Grottaglie agguerrito, che nella gara di andata si è imposto per 1-0 e nel proprio girone guida la classifica. Diversi manifesti disseminati attorno allo Specchia invitano il pubblico ad affollarne le gradinate, con la società che ha preso la saggia decisione di far valere gli abbonamenti anche in questa sfida, chiedendo – e ottenendo – lo spostamento del calcio d’inizio dalle 15 alle 17. Quando si affronta la trincea della Prima Categoria occorre giocare tutte le carte a disposizione, e ovviamente il pubblico rappresenta il vero e proprio Asso nella manica.

Varcando i cancelli mi imbatto inizialmente in uno di quei luoghi che ritengo sacri: la lavanderia. Qui uno dei più classici personaggi del calcio d’una volta, il magazziniere, è impegnato a smistare maglie e dare il ritmo alla lavatrice, che dopo il match entrerà in funzione. L’odore di biancheria è uno di quei tratti distintivi, che ci riporta all’infanzia/adolescenza e a quei campi in terra dove tutti, almeno una volta, abbiamo giocato. Spinti dai nostri genitori a fare attività fisica e ingenuamente intenti a sognare di diventare calciatori. In più delle occasioni siamo finiti dall’altra parte del campo, sulle gradinate. Sicuramente procurandoci più guai e problemi rispetto alla prima opzione.

Sulle mura campeggiano diverse foto storiche della Pro Italia e prima di imboccare il tunnel che porta al campo, respiro per l’ultima volta a pieni polmoni questa fragranza, che mi restituisce la soddisfazione necessaria a rendere vani i primi segnali di stanchezza. Una volta tanto devo dire di trovarmi al cospetto di un manto erboso davvero ben curato, quasi da far invidia a tanti campi di patate visti nelle categorie maggiori. Il sole splende alto, riscaldando gli spalti ancora vuoti, mentre un vento di maestrale mi ricorda che malgrado sia il primo giorno di primavera, il retaggio della stagione fredda è ancora ben presente.

Cerco la posizione da cui scattare più agevolmente e poi, una manciata di minuti prima del fischio d’inizio, assisto all’ingresso delle due tifoserie. Scenico quello dei grottagliesi che – controllati a vista da una telecamera della polizia – salgono i gradini del loro settore tutti assieme, bandierine alla mano. Più tranquillo quello dei galatinesi, che tuttavia fanno sin da subito una bella impressione grazie ai bandieroni, alle pezze ben curate e al granata dei neretini che spicca nel loro settore. Il colpo d’occhio è di quelli importanti e, se non lo sapessi, mai direi di trovarmi al cospetto di un match della settima categoria italiana. Croce e delizia di un Paese che malgrado una feroce repressione e una vergognosa campagna mediatica anti-ultras, offre ancora questi “gioielli”, laddove qualcuno non se li aspetterebbe.

L’arbitro fischia l’avvio delle ostilità e le due tifoserie inaugurano il confronto canoro. Finora degli ospiti ricordavo solo le vecchie foto griffate Irrequieti, che in adolescenza avevo avuto modo di vedere sovente su Supertifo. Una base ultras che evidentemente ha avuto modo di forgiarsi nelle quindici stagioni consecutive (dal 2001 al 2015) trascorse in Serie D e che, a quanto mi sembra di capire, è riuscita anche a godere di un ottimo ricambio generazionale. Le facce dei grottagliesi, infatti, sprizzano una gioventù volenterosa e tutto sommato per niente disorganizzata, in grado quindi ancora di crescere e cementare l’ideale ultras cittadino. Parliamo di un paese della provincia di Taranto, che conta poco più di 30.000 abitanti e che non è mai andato oltre la Serie D. Eppure devo dire che oggi avrò poco da eccepire nei loro confronti. Numero più che sufficiente per una partita infrasettimanale e neanche dietro l’angolo (Grottaglie e Galatina distano circa cento chilometri), tifo costante per tutti i 90′, diversi fumogeni e una sciarpata ben riuscita. Oltre a una neanche tanto larvata voglia di provocare l’avversario – che alla fine viene recepita e dà luogo a un simpatico scambio di invettive – per un’antipatia reciproca malcelata e, come detto, accentuata dall’amicizia dei bianconeri con gli storici rivali di Manduria. Comunque, complessivamente, una bella prestazione.

Passando ai dirimpettai, nonché padroni di casa, l’impressione è quella di avere di fronte una tifoseria rodata, che ha avviato l’attuale discorso di curva ormai da qualche tempo e nel settore a lei dedicato sa mostrare i muscoli, sintetizzando tutte le necessità del caso e dando vita a una maiuscola prestazione di tifo. Dai canti tenuti a lungo passando alla sciarpata, dai cori a rispondere alle torce accese quando le tenebre cominciano a calare. I galatinesi riverberano assolutamente l’idea di fare quadrato, sventolando i loro bandieroni in maniera costante e riuscendo a coinvolgere a più riprese il resto del settore. La squadra in campo aiuta e nel secondo tempo ribalta il risultato, portando i biancostellati in finale grazie a un 2-0 senza appelli; suscitando nel pubblico il dovuto entusiasmo.

Siamo in Prima Categoria e certi teatrini riescono sempre a strappare un sorriso. Le apparenti risse tra squadre, gli allenatori che bestemmiano con i propri giocatori e un alquanto sprovveduto poliziotto che tenta di sedare gli animi, venendo praticamente allontanato dai giocatori. Il commento del portiere del Grottaglie al secondo gol preso è un laconico: “Domani devo pure andare a lavorare!”, che davvero non lascia spazio a tutti gli imbrillantinati personaggi della Serie A e, ancor peggio, ai loro colleghi che vorrebbero imitarli anche in queste categorie, mettendo becera musica durante le fasi di riscaldamento, inscenando conferenze stampa discutibili e atteggiandosi a campioni senza neanche riuscire a stoppare un pallone. La genuinità del football sta proprio nell’espressione dell’estremo difensore ospiti. Sebbene immagino che per i supporter biancazzurri sia tutt’altro che piacevole!

Resto a guardare gli ultimi festeggiamenti sotto al settore di casa. Bandiere e torce vibrano, imperiose. Come dovrebbe sempre essere. Si intende forte e chiaro il grido per la Pro Italia, il cui nome nessun tribunale potrà togliere dal cuore e dai cori degli ultras.

Ora il vento è freddo e mi accompagna quasi spontaneamente ad abbandonare il prato dello Specchia. Posso riconquistare con una certa calma la strada per la stazione, così ne approfitto per un altro giro, stavolta in una Galatina vestita con l’abito della sera. Diverse macchine sono ancora impegnate a tornare dallo stadio, tanto che scorgo sciarpe bianconere stagliarsi qua e là. Il peccato è che queste giornate – formative nella loro particolarità – durino sempre poco e mi lascino una soddisfazione mista ad amaro in bocca, perché si ha sempre poco tempo per approfondire la visita di una città, di uno stadio e di una tifoseria. O forse sono semplicemente diventato compulsivo con il passare degli anni e non mi accontento di niente.

È ora di salire nuovamente sul vagoncino blu. Che lentamente chiude le porte e riparte alla volta di Lecce. Un po’ mi si chiudono gli occhi, un po’ cerco di mettere in ordine idee e pensieri su questa giornata. Il tempo dev’esser sempre ben impiegato, ove possibile, perché di esperienze non si sarà mai sazi e si avvertirà sempre l’esigenza di appagare la propria curiosità.

Sistemo il biglietto della partita, rimediato come sempre per rimpinguare la mia collezione. E nel frattempo sento, dall’altra parte del treno, alcuni ragazzi che parlano della giornata sugli spalti. Chiedendosi chi si sia sentito di più e quale coro sia stato più bello. Sono grottagliesi, ma a prescindere dalla loro fede mi lascia contento assistere a questo confronto, perché è talmente semplice ed essenziale, da riassumere la motivazione per cui ogni ragazzo si avvicina alla propria curva. Il voler onorare il senso di appartenenza e la propria realtà, oltre a voler – attraverso i propri colori – dar continuità a questa sottocultura che da quasi sei decadi riesce a fungere da incredibile collante. Dall’estremo Nord al profondo Sud.

Simone Meloni