Cominciamo con l’ovvio: se la Virtus Roma, nei panni del suo presidente Claudio Toti, non avesse optato per una discutibile auto retrocessione, nella passata stagione, questa gara non ci sarebbe mai stata. Così come non ci sarebbero stati i ferventi patemi d’animo dei playout persi a Recanati e riacciuffati contro Omegna e un’estate (quella appena trascorsa) segnata dalla latente e reale paura di non iscriversi a causa di alcuni ritardi nella richiesta.

È vero che la storia non si scrive con i “se” e con i “ma” ma è altrettanto lapalissiano che queste decisioni siano scaturite da un libero arbitrio (quello del presidente) e non dall’obbligo di terzi (non ci sono state, ad esempio, penalizzazioni della Federazione et similia). Se, dunque, all’interno di questo pezzo si disquisirà anche di un avversario artefatto e non certo in grado di incarnare la parola “derby”, in prima istanza è giusto dire che le colpe di una situazione grottesca e pirandelliana sono da cercare innanzitutto nel cortile di casa propria. Quei tifosi umiliati per l’ennesima volta, nonostante la loro stoica resistenza (alla faccia di chi descrive il pubblico di Roma come freddo, insofferente e ingerente nelle questioni decisionali, a tal punto da rendere impossibile il lavoro nello sport) c’erano, ci sono e ci saranno. Anche dalla prossima in trasferta, in qualche disperso anfratto nebbioso della Pianura Padana (con tutto il rispetto per questa zona). Ma, scusate la retorica, non meritano certo di subire settimanalmente questo genere di trattamento. Non hanno crocifisso loro Gesù Cristo e, come in qualsiasi aspetto della vita, dovrebbe esser arrivato il momento per una vera e propria presa di coscienza (oltre che di responsabilità) di tutto questo.

La mediocrità ammanta la Roma sportiva. Da sempre. Ma soprattutto nell’ultimo decennio. Potremmo star qui a descrivere centinaia di situazioni solo nel calcio (la disciplina più seguita) ma basterebbe leggere i titoli dei giornali e poi curiosare nell’albo d’oro di Roma e Lazio per rendersi conto di quanto la Capitale si crogioli spesso nella sua presunzione per poi cadere in una miserrima e anonima nullità. La mediocrità, però, non dovrebbe costituire un qualcosa di abituale. Fare il callo alle mezze classifiche, alla Serie A2, alle sconfitte che si susseguono, alle cadute di stile e alla perdita d’immagine, riconsolandosi con fattori di seconda importanza (“riconsolamose co’ l’ajetto” si dice a Roma) rischia di essere il simulacro di una morte prossima.

Perché non bastano 2.700 spettatori e un ambiente caldo ad attutire l’onta di una sconfitta contro un club che fino a qualche anno fa fungeva da vero e proprio farm team per la Virtus e che nelle ultime due stagioni si è concesso forse qualche libertà di troppo nei confronti di chi a Roma ha scritto la storia della pallacanestro, permettendo a generazioni di ragazzi di avvicinarsi a questo sport e regalando alla città una Coppa dei Campioni, un’Intercontinentale e due Coppe Korac (neanche il calcio ha portato tutti questi trofei in bacheca). Un pubblico che è stato abituato a battagliare con Caserta, Milano, Varese, Siena, Avellino e a vedere in campo signori del calibro di Santiago e Bodiroga (o se andiamo a ritroso, gente come Larry Wright) non può esser declassato e costretto come nulla fosse a riscaldare i motori per un derby che, fondamentalmente, non dovrebbe interessare a nessuno.

Se poi volessimo fare i “conti della serva” e guardare il pelo nell’uovo, potremmo tranquillamente dire che la Virtus Roma ha ormai da tempo perso il primato regionale (che attualmente spetta a Ferentino, arrivata lo scorso anno ai playoff) e attualmente, se si vuol considerare l’Eurobasket un’entità cestistica insita nel tessuto storico/sportivo capitolino, vede vacillare anche quello cittadino. Nonostante tutto. Nonostante un palazzetto che si è riempito per non retrocedere, che ha visto in campo spesso protagonisti dalle dubbie proprietà tecniche e che oggi si è visto esultare in faccia da tanti personaggi che, almeno fino all’ultimo canestro di Datome nell’anno di grazia 2012/2013, usavano la Virtus Roma e il PalaTiziano come passerella, spergiurando ai quattro venti una fede evidentemente flebile più di una fiammella all’arrivo di un tornado. Una fede in tanti hanno gettato nel secchio dell’immondizia per un paio di biglietti omaggio (nelle foto è chiara la divisione tra pubblico pagante e pubblico “scroccone”/ragazzi delle giovanili, con facile individuazione anche di chi faccia il tifo per chi).

Questione di coerenza e appartenenza. E questo a Roma spesso finisce per essere un boomerang. Sono troppi quelli pronti a cambiare bandiera in base al vento. O, in questo caso, maglietta in base ai risultati. O posto in tribuna stampa. Già. Basterebbe vedere determinate pubblicità “progresso” su determinati quotidiani per rendersi conto di una palese disparità di trattamento (cosa che, torniamo a bomba, è anche da ricercare nella gestione Toti, troppo spesso gratuitamente conflittuale con tutto ciò che circonda il club). Un po’ come l’avvoltoio che attende la morte della propria vittima. Del resto il comunicato delle Brigate di qualche mese fa parlava chiaro. Qualcuno tentò, in maniera maldestra, di comprare con dieci fichi e una prugna vecchi esponenti del tifo virtussino, suscitando scalpore e dicendola, sin da allora, lunga sul modus operandi di chi si erge a “rivale cittadino”. Non essendo però per storia e tradizione al pari di una Stella Azzurra o un’Eldorado Lazio ad esempio, due tra i sodalizi che a Roma possono dire di aver disputato veri e propri derby con la Virtus, oltre a rientrare di diritto nell’Olimpo del basket cittadino.

L’ultima immagine rimane quella della Virtus rimandata indietro dalla Curva Ancilotto, a fine partita. Non c’è voglia di salutare e di giustificare una sconfitta che, probabilmente, segna il punto più basso degli ultimi anni. Anche se i tifosi romani hanno imparato a non conoscere il fondo di un pozzo che appare sempre più buio e minaccioso. C’è puzza di mistificazione e forse in pochi sanno quanto la Capitale sabbia insabbiare storie gloriose e lunghe decenni solo e soltanto in base a risultati o convenienze economiche. Ci sono dei carrozzoni che si muovono a prescindere e su cui in tanti vogliono sempre salire.

Ve lo dice un ragazzo che ai tempi visse in prima persona la “storiaccia” Lodigiani/Cisco. Quando un club storico e teoricamente amato dai romani fu fatto scomparire tra il menefreghismo dei più. Ad appannaggio del nulla (cosa che si dimostrarono la Cisco prima e l’Atletico Roma poi). Il parallelismo è sicuramente forte e non sovrapponibile sotto determinati aspetti. Ma non bisogna giocare con il fuoco e occorre cominciare a preservare i patrimoni sportivi dell’Urbe. Non ci dimentichiamo che è la stessa dove pallanuoto e pallavolo sono praticamente scomparsi e il calcio è divenuto ormai un affare per pochi intimi. La stessa città che fagocita e fa sparire qualsiasi cosa bella e aggregante, piazzandoci spesso “non entità”. Ecco. È ora di svegliarsi.

Simone Meloni.