Tre anni fa era ancora troppo presto per poter dimenticare. Che poi, cosa vuol dire dimenticare? Ci sono dei contesti in cui questo verbo semplicemente non esiste. Non vuol dire niente. Per le strade, nelle piazze, sui gradoni delle curve: “dimenticare” non vuol dire niente. Giugliano è un paesone a cui stanno stretti i propri confini, alle porte di Napoli. Qui, tre anni fa, il calcio non c’era. O meglio, non c’era da un po’. La squadra che rappresenta la città, nata nel lontano 1928, era sparita da poco, spazzata via da retaggi che, anche in questo caso, nessuno dimenticherà. È in questo scenario che gruppi di ragazzi fanno quadrato. Senza calcio e senza nessuna prospettiva futura, l’unione cominciava a generare una sorta di percorso al contrario. Due o tre motorini ai lati di una piazza, una panchina in parco, sei o sette ragazzi. Poi, dieci. Poi venti. Poi, sempre di più. Si chiama “aggregazione”. Assieme, cominciano a darsi un gran da fare. Ve l’ho detto: in certi contesti “dimenticare” non vuol dire niente.

Dopo qualche settimana, il 30 giugno di tre anni fa, venne giocato il primo Memorial “Giustino Barretta”. Senza una squadra, senza uno stadio, senza aspettative. Fu la voglia di gridare un nome su dei gradoni a spingere quello sparuto gruppo di ragazzi ad andare avanti. E allora, cosa volete che importi avere una squadra, uno stadio o delle aspettative? Bastò avere il ricordo dentro. Bastò il ricordo ad alimentare la passione, a generare aggregazione. Ancora una volta, agli antipodi del “dimenticare”, dopo tre anni tutto si ripete, come fosse prassi. Una prassi di rispetto e di passione. Nel ricordo di un fratello mancato troppo presto, di un ultras, il rituale si ripete. Ogni anno, da quel 30 giugno di tre anni fa, si rinnova il patto tra passato e futuro, tra passione incondizionata e senso ultimo del tifo. I ragazzi salgono le scale che portano ai gradoni malmessi del Comunale di Lusciano. Uno striscione enorme dà il nome a chiunque sia lì ad onorare la memoria di Giustino Barretta. Ancora, di nuovo. Come tre anni fa.

Ho seguito per anni le vicende della squadra della città in cui vivo, da vicino e da lontano. Ho osservato in silenzio le capriole della passione, la sua crescita nel segno dell’aggregazione a prescindere. Nel tempo, il movimento ultras giuglianese ha saputo rinnovarsi, parallelamente ai saliscendi di classifica del Giugliano che, intanto, un coraggioso imprenditore locale ha riportato in vita la scorsa estate. È come se ogni partita, per i ragazzi, fosse un Memorial. Non importa il risultato sul campo. O almeno, conta per troppo poco tempo per poter dire che importi davvero. Ad ogni partita, su ogni campo, il volto di Giustino Barretta sventola sorridente. In prima linea, con tutti dietro di lui. I suoi amici, i suoi fratelli, i suoi compagni di curva lo onorano semplicemente andando avanti nel suo nome. Può il “ricordare” generare un sentimento tanto forte da spezzare ogni bastone che si insinui tra le ruote? Può essere così vivo il ricordo da cancellare di netto il significato della parola “dimenticare”? Certo che può. Accade, ogni anno. Ogni partita. Ancora e ancora.

I suoi compagni di gruppo, i Briganti 09, hanno avuto un solo pensiero nella testa per settimane. Ognuno con la sua quotidianità da gestire, tutti allo stesso modo. Ogni anno, da tre anni a questa parte, giugno vuol dire “ricordare”. E “ricordare” è una parola importante. Vuol dire aggregazione. Vuol dire andare avanti, con tutto il resto che semplicemente ti scivola addosso e che perde il suo peso. Ogni volta gli parlo, li osservo: è come se mi dicessero che c’è tempo per riposare, c’è tempo per tutto il resto. Gli altri gruppi della Curva Liternum, i Kumani e le Teste Matte, lasciano da parte le loro identità, si uniscono ai Briganti 09 affinché tutto fili liscio. Ognuno ha un ruolo. La curva diventa una macchina organizzativa che non si ferma mai. Di giorno, anche di notte. Viene organizzata una lotteria: i proventi verranno devoluti interamente alle attività di assistenza dei bambini dei reparti oncologici. In molti incrociano l’operatività di questa macchina intraprendente, li guardano con occhio critico.

Non capiscono. Tutto questo “casino” per nulla, mi sembra di sentirli schernire. Ma non importa. Come ho detto, fa parte del “tutto” che scivola addosso e che perde il suo peso. A ridosso del giorno del Memorial, arrivano in città le altre tifoserie. I ragazzi che arrivano da più lontano si sistemano in qualche albergo della zona. Il tempo di lanciare i borsoni nelle stanze e si riversano nei club per dare una mano. Per partecipare al rito che è diventato collettivo. Il collettivo è diventato incubatore di ricordo e speranze. Anno dopo anno, il cerchio magico dell’aggregazione si è popolato di tanti amici, vicini e lontani. I ragazzi di Gela, quelli di Brindisi e quelli di Aversa. L’Area Nord della curva B del San Paolo e i ragazzi di Pagani. I ragazzi di Serra di Falco e quelli di Caivano. Quelli di Afragola, di Ercolano e di Gravina di Puglia. Tutti con le loro storie identitarie, e tutti pronti a spogliarsene per ricordare. Torce, bomboni, fumogeni, colori, cori e tamburi. Parafrasando una pietra miliare della sottocultura ultras, ogni anno il tutto si ripete. Si ricorda e ci si aggrega. Perché il ricordo è aggregazione.

Saverio Nappo