Per riprendersi da periodi infausti e piatti ci vuole spesso il classico bagno d’umiltà che ti ridà la dimensione da cui sei venuto e ti fa tornare quel minimo di entusiasmo nella gioventù che verrà e che, speriamo, in futuro occuperà i gradoni per i quali hai vissuto, sognato, sofferto.

Non c’è una categoria in cui si è ultras ed un’altra in cui si è tifosi. Essere ultras nel professionismo del calcio d’oggi è diventato un qualcosa di a dir poco difficile, un percorso irto di ostacoli e pessimi esempi che spesso finisce con il forgiare in maniera altrettanto pessima i nostri ragazzi, facendoli immedesimare in modelli sbagliati e quantomeno mentalmente fatiscenti.

Mi avvicino con tale idea a questa partita. Conosco Fabiano, un ragazzo della zona che mi ha invitato una mattina a vedere all’opera il gruppetto che segue le sorti della squadra di quartiere. Morena si trova una manciata di chilometri oltre il Grande Raccordo Anulare. Laddove comincia letteralmente un’altra città. Molto diversa da quella bella e maestosa del centro, con le sue strade in basolato ed i suoi monumenti millenari, ma differente anche dalla periferia compresa nel grande anello d’asfalto che la circonda. È una zona residenziale, solamente strade, case, qualche grande supermercato e poco altro. Non che, nello specifico, si tratti di un’area pericolosa o sottosviluppata, ma la concezione dormitorio di queste concentrazioni urbane non mi ha mai convinto del tutto.

Raggiungerla da casa mia è un gioco da ragazzi, basta percorrere un pezzo della Via Anagnina e prendere un paio di traverse per trovarmi proprio di fronte al campo. I ragazzi dell’East End, così si chiama il gruppo al seguito dell’Atletico Morena, sono già fuori al cancello in attesa di entrare. Parcheggio la macchina e li raggiungo all’interno scambiando quattro chiacchiere con Fabiano.

Mi viene il sorriso sulle labbra nel vederli discutere per sistemare pezze e striscioni e per decidere quando e come accendere torce e fumogeni. Rivado con la mente indietro, molto indietro, ad un periodo davvero importante nella formazione della mia concezione di curva. Ricordo l’entusiasmo per ogni minima stupidaggine, il mio avvicinamento ad un piccolo gruppo della Capitale che non seguiva né Roma e né Lazio, e gli occhi che mi brillavano nel sentire vicino bandiere, striscioni, pezze e tamburi. Non ringrazierò mai abbastanza chi mi ha permesso di scoprire questo mondo, ma innanzitutto credo che il merito sia stato il mio e della mia curiosità di andare oltre lo scontato. Oltre le due curve di Roma che erano là a portata di mano.

Mi regalano un paio di adesivi e qualcuno di loro sembra addirittura lusingato dall’avere un inviato di Sport People a disposizione. In realtà l’onore è tutto il mio, come sempre in questi casi. Rispetto all’isterico calcio dei Serie A, B e Lega Pro, qua per entrare in campo c’è bisogno di un vero e proprio fai da te. Scendo negli spogliatoi per consegnare il documento all’arbitro, rimedio una pettorina ed entro in campo.

Il caldo che sta ricoprendo Roma nel mese di settembre è esattamente quello che non l’ha toccata nei mesi più consoni, ciò crea una vera e propria cappa di umidità rafforzata dal manto verde in sintetico, che trattiene il calore sprigionando quel triste odore di modernità plastificata.

L’altro aspetto alquanto discutibile di questo impianto è la veste interamente rossonera, con simboli del Milan disseminati ovunque. Il centro sportivo è infatti affiliato alla società meneghina, tanto che le giovanili che vi giocano prendono il nome di Centro Calcio Rossonero. Un qualcosa, se possibile, di ancor più moderno del campo in sintetico. Parlando con i ragazzi dell’East End, prima del match, mi fanno capire chiaramente di non apprezzare questa cosa, tanto da contestarla ogni domenica.

L’avversario di turno è l’Eretum. Una delle tante compagini sfornate negli ultimi anni dalla città di Monterotondo. Tutto sommato il nome è anche bello, perché riprende l’antica denominazione della cittadina situata a ridosso della Via Salaria, ma di seguito ultras ovviamente non vi è assolutamente nulla.

Le squadre fanno il loro ingresso in campo ed i ragazzi sugli spalti accendono qualche torcia cominciando a fare tifo. Certo, ovviamente non possiamo aspettarci numeri da Partizan Belgrado, ma la sostanza c’è. E va sempre ricordato che parliamo di Prima Categoria Laziale, di un quartiere all’estrema periferia della Capitale e di partite che si disputano alle 11 del mattino. Tanto basta per apprezzare lo sforzo e la convinzione con cui questi ragazzi affrontano l’impegno.

Se posso, consiglierei loro magari di uscire un po’ dallo schema dei cori ripresi solamente dalle due curve romane. Questo perché ritengo sia sempre bello sperimentare e metterci tanto del proprio in ciò che si fa. La prerogativa dell’ultras, almeno per me, è quella di primeggiare in ogni campo. E quindi per primeggiare bisogna inventare. Dai cori, agli striscioni al materiale. Ma di tempo ne hanno sicuramente ed è anche vero che se si è stati abituati a vedere un solo modo di concepire il tifo, è anche difficile diversificare e modificare le proprie abitudini.

Comunque il sostegno c’è, per tutta la partita. Il piccolo manipolo si fa sentire sempre, cantando, saltando e sbandierando. Una realtà interessante con margini di crescita e sviluppo.

In campo la partita è combattuta ed alla fine finisce in pareggio. Io sono costretto ad abbandonare il terreno di gioco qualche minuto prima del termine, devo raggiungere Civita Castellana e lo voglio fare senza dover correre per la strada.

Saluto i ragazzi e mi avvio verso la macchina con una piccola soddisfazione nel cuore. C’è ancora chi è disposto a sacrificare la propria domenica mattina, il proprio tempo libero, per andare dietro ad un ideale così tanto demonizzato e falcidiato da un campagna mediatica feroce e meschina negli ultimi anni. Questi ragazzi sono i nostri figli. I figli di chi oggi critica e vede con un altro occhio le curve, ma ancora le ama e le porta quotidianamente con sé. Sta anche a noi non farli disilludere e mollare in luogo di altri svaghi domenicali. I problemi del movimento derivano anche da tante persone navigate che negli anni hanno voltato le spalle alle gradinate, lasciandole in mano a sbandati o incompetenti, con risultati che sono sotto gli occhi di tutti.

Mi rimetto in marcia con una speranza, quella degli occhi luminosi e pieni di voglia di questi ragazzetti. Oggi ho voglia di fare. Vorrei ritornare col mio striscione, sulla balaustra a tifare per 90 minuti assieme agli amici. Le birre, i sorrisi, le battute ed anche la tristezza delle delusioni e delle sconfitte. Ma chi vive da ultras non perderà mai, perché sa che all’indomani c’è un’altra battaglia da combattere e… un altro viaggio e una città per cantare.

Simone Meloni.