Lasciandomi alle spalle l’Olympiastadion, dopo la sfida tra Herta e Norimberga, una coltre di neve mi accompagna ai bordi dei marciapiedi, fino alla stazione della U-Bahn. Il freddo berlinese è tutt’altro che accondiscendente con il sottoscritto e, malgrado la sottoveste termica, avverto un certo gelo nelle mani, che non facilita i miei movimenti. È venerdì sera e la maggior parte dei ragazzi fermi sulla banchina si sta dirigendo verso pub e locali per dar inizio al proprio fine settimana. Sono un po’ in ansia: benché la ZOB sia tutto sommato vicina, i tempi non sono propriamente larghi e il mio Flixbus per Rostock partirà – teoricamente – tra quaranta minuti. Sacrosanto utilizzare simile avverbio, dato che in men che non si dica una mail mi avvertirà di un cospicuo ritardo (oltre un’ora), facendomi rilassare sui vagoni color avana e bordeaux del treno su cui sono appena salito. Gli zaini pesano come macini e incurvano la mia schiena, non scalfendo però l’entusiasmo e la curiosità di vedere per la prima volta dal vivo il Derby dell’Est tra l’Hansa e la Dynamo Dresda. Una vera e propria classica per il calcio tedesco, che nasconde una miriade di storie e significati, con radici ben profonde, legate a quella Cortina di Ferro che per diversi decenni ha diviso il Paese. Hansa e Dynamo, per dirne una, sono stati i primi due club a prender parte alla Bundesliga unificata, seppur con fortune complessivamente misere, soprattutto per il club di Dresda. Ma è senza dubbio la storica rivalità che divide le tifoserie a rendere questo incontro celebre e ambito dagli amanti curvaioli e da chi nel pallone vuol respirare ancora un po’ di sano conflitto sportivo e territoriale.
Rostock dista esattamente duecentotrentaquattro chilometri da Berlino e quando vi arrivo, a notte inoltrata, tutta la brezza del Mar Baltico mi travolge selvaggia. Magari non sarà piacevole ma sicuramente restituisce un tono di veracità e “umore” autoctono. Sono affascinato e incuriosito da questa zona, forse perché memore di antiche mattinate alle scuole medie in cui la mia professoressa – di origini teutoniche – tenne particolarmente ad approfondire la Lega Anseatica. Fattore che nella mente malata del giovane calciofilo qual ero, contribuì non poco a legare perennemente quella lezione al nome Hansa, ogni qual volta me lo ritrovo davanti. In quegli anni divoravo la sezione calcistica del Televideo, soprattutto nelle sue pagine di calcio minore e straniero. Pertanto ricordo con una certa nitidezza alcune stagioni gloriose della squadra locale, che ha disputato il suo ultimo campionato di massima divisione nel 2007/2008, per poi galleggiare – spesso annaspando – tra seconda e terza serie. Rimando all’indomani una visita più accurata del centro cittadino, necessitando di qualche ora di sonno e godendo appieno il tepore della mia stanza, una volta entrato. La cosa che forse più colpisce è l’assenza totale di persone sia all’interno della stazione (generalmente quelle tedesche sono a dir poco caotiche a ogni ora) che nelle vie centrali. L’idea di austerità mista ad appartenenza si insinua in me, quando avviandomi verso l’albergo incappo in diverse scritte contro la Dynamo Dresda, contro i sassoni e nei classici graffiti che imperversano ovunque.
Pur essendo la città più grande del suo Land (Meclemburgo-Pomerania Anteriore) Rostock non ne è capoluogo (ruolo che spetta a Schwerin), ricoprendone comunque il ruolo chiave da un punto di vista storico ed economico. Basti pensare che il suo porto è uno dei più importanti del Paese, sia per il commercio che per le crociere. Una posizione che gode, chiaramente, dell’importante retaggio storico legato al ruolo preminente ricoperto da Rostock nella Lega Anseatica di cui sopra, che dal tardo medioevo fino all’epoca moderna ha rappresentato un fondamentale snodo economico, culturale e politico. Benché non autonoma come le Repubbliche Marinare nel Mediterraneo, infatti, quest’alleanza ha contribuito a portare in riva al Mar Baltico non solo benessere ma anche una profonda impronta progressista, basti pensare che ancora oggi Rostock rimane uno dei più importanti poli universitari della Germania, mentre il suo centro storico ha preservato molti edifici e scorci caratterizzati dallo stile gotico-baltico, diffuso praticamente in tutte le città della Lega. Una bellezza mozzata, come altrove, dagli ingenti bombardamenti subiti durante la Seconda Guerra Mondiale, quando la città aveva assunto un ruolo chiave nella produzione di armi e artiglieria aeronautica. Mi immergo in questo contesto storico e sociale dopo una ricca colazione con un panino farcito di frikadelle (polpette diffuse in buona parte del Nord Europa). Adesso il sole bacia timidamente le strade e lungo le sponde del Warnow cominciano a essere sempre più numerosi i ragazzi e le ragazze che abbozzano una passeggiata, osservando disincantati le acque congelate del fiume. Laddove questo si allarga, dando spazio anche al porto cittadino. Laddove ha dato il nome alla città: in lingua slava, infatti, roztoc significa “allargamento del fiume” ed evidenzia come il primo nucleo urbano abbia avuto sviluppo proprio qui. La piazza del Municipio – forse la più bella artisticamente parlando – con il passare del tempo comincia a riempirsi anche di auto della Polizia, che si preparano palesemente a controllare le strade in direzione stadio. Lontano dai circuiti turistici tradizionali, in una stagione ancora fredda, per un bel derby di terza divisione: mi sento rinfrancato dalla mia scelta e contento di cercare sempre qualcosa di poco convenzionale. Se poi per arrivarci devo prendere un infinito numero di autobus, aerei, tram, treni e macchine… tanto meglio!
Le poche ore di sonno e il freddo non intaccano certo la voglia di incastrare tutto nel tempo a disposizione. In diversi angoli graffiti e scritte con l’acronimo FCH sono ben visibili e marcano un territorio dove l’Hansa ha assoluto predominio. La sensazione generale è che a queste latitudini si presti un’attenzione quasi maniacale al rimarcare il legame tra la città, le sue mura, i suoi monumenti e la sua espressione calcistica, cosa che ovviamente funge da cartina al tornasole su quanto il movimento ultras abbia ormai permeato la società tedesca, trasformando un universo primordiale, perlopiù hooligans e spontaneista, in qualcosa di profondamente organizzato e capace di risaltare, difendere e propagare concetti, colori e storia del club e del suo pubblico più caldo.
Fa strano pensare che la tradizione sportiva dei Kogge abbia un corso fondamentalmente “contrario” a quella dei grandi club della DDR. Fondato nel 1965 da una costola dell’Empor Rostock, anche per volere del governo, che cercava un blocco di squadre dove far crescere nuovi talenti e forgiare il movimento calcistico nazionale. In realtà il club riuscì a ritagliarsi pochi spazi importanti e negli anni settanta, addirittura, conobbe l’onta della retrocessione in seconda divisione. Solo dopo la riunificazione, con la fine dell’egemonia delle squadre “tradizionali”, l’Hansa fece parlare di sé, vincendo la prima Oberliga della sua storia (1990/1991, l’ultima disputata), partecipando per la prima volta alla Coppa dei Campioni (venendo eliminati al primo turno dal Barcellona, che poi vincerà la finale di Wembley contro la Sampdoria) e rappresentando per diverse stagioni l’ex Germania dell’Est in Bundesliga. Tuttavia, come per tutte le squadre della DDR, i problemi economici si manifestarono ripetutamente e in maniera sempre più pressante, costringendo quasi sempre a vendere i giocatori più talentuosi (tra cui Oliver Neuville, punto fermo della Mánnschaft) tanto che – come detto – dall’ultimo campionato in massima serie, il sodalizio non è mai più riuscito a ripetersi, anzi, diverse sono e sono state le partecipazioni alla 3.Bundesliga. Personalmente posso dire – non certo per la gioia dei tifosi anseatici – di aver assistito all’ultima retrocessione, avvenuta lo scorso anno a Gelsenkirchen, contro lo Schalke 04, in un triste pomeriggio primaverile.
Quando mancano più di due ore al fischio d’inizio comincio ad avvicinarmi all’Ostseestadion (stadio del Mar Baltico), impianto inaugurato nel 1954 e oggetto di vari restyling, come quasi tutti gli stadi del Paese, tra i quali, però, c’è spesso e volentieri un comun denominatore: non si procede con l’abbattimento o il cambio di sede rispetto a quella originale e l’intera tifoseria ci tiene in modo quasi morboso alla difesa del nome storico, nonché della struttura. Ciò che ne viene fuori è sotto gli occhi di tutti: impianti giustamente e saggiamente moderni ma a misura di tifosi, dove il pubblico convoglia agevolmente, riempiendoli quasi sempre e dove anche lo spettacolo calcistico rimane ancorato alle emozioni delle gradinate. Una sinergia che al momento è difficile trovare negli altri grandi campionati europei (il paragone col nostro neanche lo faccio, dato che in Italia vige un sottaciuto ma spesso veritiero concetto con cui il nuovo debba coincidere con l’uccisione delle tradizioni, del folklore e della passione). Del resto è sufficiente rendersi conto di come a ogni latitudine della Germania, i tifosi comincino a girovagare attorno allo stadio tantissimo tempo prima della partita. E non parlo solo degli ultras, che di tanto in tanto danno vita a cortei o assembramenti per caricare l’ambiente, ma anche del semplice supporter. Ammetto che troppe volte – soprattutto per gare di A – ormai evito di presentarmi al di fuori degli impianti del nostro Paese con lauto anticipo. Questo innanzitutto per evitare il clima da carcere di massima sicurezza che li contraddistingue e poi perché l’industria calcio ha trasformato alcune piazze in laboratori teatrali. Dove questo luogo non è inteso come casa della nobile arte con cui greci e romani si adoperavano scrivendo e recitando opere che ancora oggi si studiano a scuola, ma quasi sempre trascende in macchiette pacchiane e senza senso degne del peggior cinepanettone.
Salgo sulla S-Bahn e in pochi minuti sono a destinazione, scendendo assieme ad altre decine di tifosi con sciarpe biancoblu, molte delle quali recanti scritte contro gli odiati rivali di Dresda. Lo schieramento di forze dell’ordine, manco a dirlo, è impressionante e a tratti anche inquietante, almeno vedendo l’equipaggiamento che hanno a disposizione. Eppure, mi viene da dire, qua il rapporto di “forza” non è propriamente impari come negli ultimi anni da noi. Questo, chiaramente, è possibile per i tantissimi giovani che si sono avvicinati al mondo delle curve tedesche e per il senso di forte comunità che queste hanno sviluppato. Quante volte – soprattutto in occasioni di episodi relativi a becere e inutile repressioni – da noi sentiamo dire “forti con i deboli, deboli con i forti”? Tante. Troppe. Credo che una delle differenze sia proprio qui. In questo momento storico in Germania, il mondo ultras non fa solo aggregazione, ma ha sviluppato una forza, una credibilità e un fascino che porta numeri, idee e iniziative incredibili. Numeri che non facilitano certo la vita di chi questo mondo vorrebbe annientarlo. Mettiamoci poi – lo ripeto per la milionesima volta – che la partecipazione dei tifosi nei club è a dir poco attiva. Una combo che permette non solo agli ultras ma a tutto l’intero movimento del tifo nazionale di poter dire la sua, difendere i propri diritti e tutelare appieno aspetti prettamente concettuali, idealisti e di appartenenza. I numeri non fanno la qualità, vero. Ma quando i numeri sono costituiti da gente “scolarizzata” su quello che si sta facendo e le battaglie vengono condivise e propagandate – attraverso fanzine, cortei, assemblee popolari, volantini, dimostrazioni – anche al di fuori del contesto curva, allora se non si vince si rischia quantomeno di pareggiare. Un assunto che spiega il successo del modello teutonico anche in altri suoi campi.
Metto piede sul manto verde dell’Ostseestadion e comincio a guardarmi attorno. C’è una particolarità, sicuramente rara in ambito tedesco: il settore ospiti è posizionato nell’angolo vicino alla curva di casa, dove il gruppo Suptras organizza storicamente il tifo. Ciò non può che attirare la mia attenzione, rimandando i ricordi alle diverse “battaglie” svoltesi negli stadi italiani ogni qualvolta la conformazione fosse uguale o simile. Certo, qua il cuscinetto non è cosa da poco: un cordone di agenti e un divisorio occupano lo spazio “franco” lasciato tra le due fazioni. Cosa che tuttavia non impedirà alcune tensioni nell’intervallo, come avrò modo di accennare. Sta di fatto che sono attesi 26.000 spettatori, vale a dire il massimo della capienza consentita. Vero: è un derby. Vero: la Dynamo è prima. Vero: l’Hansa vuole insidiare la testa della classifica. Ma sono pur sempre 26.000 spettatori per una partita di terza divisione. Numeri che non si discostano peraltro dalla media stagionale che si aggira sulle 23.000 unità. Ergo: rendi il calcio appetibile, a portata di tutti e affascinante… avrai sempre tanta gente sugli spalti. Il nostro passato ce lo insegna ed è triste constatare come con buona parte del Vecchio Continente questi valori si siano ampiamente sovvertiti. Nel frattempo gli ultras ospiti stanno entrando alla spicciolata e solo a ridosso del fischio d’inizio quasi tutto il loro contingente sarà assiepato sugli spalti, “vittima” sicuramente di un servizio d’ordine rallentato e meticoloso. Altra particolarità di questo stadio è la presenza di due nuclei ultras distinti e separati. Oltre ai gruppi presenti nella suddetta curva, infatti, un attivissimo zoccolo duro milita nell’angolo che divide la tribuna di fronte a me e la curva alla mia sinistra. Questo “dualismo” – che storicamente agisce nel “silenzio” ma anche nella purezza/durezza dei propri ideali – è davvero fuori dal comune in Germania e contribuisce, manco a dirlo, a incendiare ancor più un ambiente che con il passare dei minuti comincia a riscaldare seriamente i propri motori, mettendosi innanzitutto in mostra con una sciarpata eseguita praticamente da tutto lo stadio, mentre in campo sono presenti altre figure che ormai ho imparato essere “consuete” a queste latitudini: gli sbandieratori. In questi caso bambini muniti di bandiere del club, che si portano a centrocampo in attesa dell’ingresso delle due squadre. Costoro – che sarebbero pure “carini” da un punto di vista del colore (sicuramente meglio loro delle mascotte con pupazzi improbabili) mi costringono sempre a calibrare al meglio la postazione dove mettermi a inizio gara, onde evitare di non impallare le mie foto in caso di coreografie.
Con i giocatori finalmente in campo può iniziare anche il confronto tra le gradinate. Ad aprire le danze è la curva alla mia destra che si immola in una bellissima e densissima fumogenata con i colori del club e la scritta “Für Immer Nur Hansa” (Per sempre solo Hansa). Il fumo sale lento e si fonde solo nella parte conclusiva della sua ascesa, coprendo l’intero settore e dando vita veramente a uno spettacolo notevole, che lascia dietro di sé l’inebriante acre odore con cui molti di noi sono cresciuti, prima che questa fragranza divenisse quasi sempre sinonimo di Daspo e denuncia penale (poi però i club li stampano su abbonamenti, biglietti e campagne pubblicitarie!) Diverse torce vengono accese anche nella “zona ultras” opposta, mentre buona parte del pubblico delle tribune si appresta a seguire i novanta minuti totalmente in piedi. Una curiosità che merita certamente nota: gli ultras locali sposano largamente lo stile “polacco” in diversi passaggi. Visivamente quello che risalta di più è senza dubbio l’assenza di bandiere e bandieroni (cosa che già avevo avuto modo di riscontrare a Gelsenkirchen). Del resto basti pensare che Stettino dista poco più di duecento chilometri da qua e, più in generale, nella ex DDR c’è la tendenza nel riprendere molti aspetti del modello “confinante”, sebbene a loro volta i polacchi abbiano cambiato il loro modo di vivere lo stadio, riconvertendosi più che parzialmente in uno stile italiano. Sta di fatto che – a prescindere dai gusti personali – gli Hanseaten ci mettano voce e potenza, caratteristiche che li rendono protagonisti di una gran bella performance, aiutata anche dal quasi immediato vantaggio, siglato da Nils Fröling all’undicesimo minuto e segnato da una bella esultanza, che vede il giocatore correre sotto al proprio pubblico in visibilio.
Nel mio girovagare attorno al perimetro del campo mi porto anche sotto il settore ospiti, dove i Dresden confermano ancora una volta tutto il loro valore: manate potenti ed eseguite dalla prima all’ultima fila, voce che segue perfettamente le direttive del megafono e continui scambi di insulti con il resto dello stadio. Loro, che a differenza dei dirimpettai generalmente danno spazio a bandiere e bandieroni (come ho avuto modo di vedere anche in quel di Cottbus, qualche mese fa), in questa occasione si presentano con un unico bandierone che viene sventolato nella zona centrale, dando al settore un’impronta più asciutta, che tutto sommato ci può stare considerata la gara ad alto rischio. Quando l’arbitro manda le due squadre negli spogliatoi tutto sembra rimanere sui binari di una relativa tranquillità, con gli altoparlanti che cominciano a irrorare disparate musiche dance del passato. L’apparente calma viene squarciata dal parapiglia che scoppia tra i due settori prospicienti, tra i quali inizia un fitto lancio di torce e fumogeni. Questo porta alla sospensione della partita, che ricomincerà con oltre quaranta minuti di ritardo rispetto al dovuto, dopo numerosi messaggi gridati dagli speaker, tra i quali la minaccia di abbandonare definitivamente il terreno di gioco, con relative sanzioni per i club. So che molti di noi, come detto poc’anzi, troveranno tutto ciò fondamentalmente normale. Un “semplice” lancio di torce e oggetti tra tifosi, roba che in Italia era ordinaria amministrazione fino a qualche stagione fa e che, soprattutto, in termini sanzionatori comportava al massimo qualche ammenda per le società (proprio come succede attualmente qui). Per qualche secondo, tuttavia, ho immaginato questa scena in un qualsiasi stadio italiano, ora, immaginando le tifoserie in oggetto colpite da infiniti divieti di trasferta, processo mediatico e una lunghissima coda di Daspo. Sapete che c’è? Quasi mi manca la figura tutt’altro che simpatica e amabile di Giorgio Tosatti, sempre in prima linea nel pontificare contro gli ultras italiani alla Domenica Sportiva ma, in fin dei conti, ininfluente in termini repressivi (almeno nel breve termine), specie in rapporto agli infiniti sermoni che ci dovevamo sorbire ogni domenica.
Tornando alla sfida odierna: quando le squadre finalmente ricominciano a giocare, le due fazioni tornano a sostenere i propri colori, sebbene nel settore ospiti vengano tolti quasi tutti gli striscioni. La gara si trascina sul risultato di 1-0 e alla fine sono quelli dell’Hansa a gioire dopo il triplice fischio. Una vittoria che ovviamente fa esplodere lo stadio e porta i giocatori a festeggiare lungamente sotto tutti i settori. Delusione ma dimostrazione d’orgoglio per gli ospiti, che mantengono comunque il primo posto e chiamano la squadra a rapporto per applaudirla e spronarla. Mi godo gli ultimi scampoli di questo Derby dell’Est, osservando l’onda di gioia che pervade i sostenitori di Rostock per poi cominciare a riporre tutta l’attrezzatura e raggiungere le uscite. Non ho molto tempo, il programma prevede: rientro a Berlino con Blablacar, aereo per Milano e, da lì, il mattino seguente aereo per Catania e derby tra Sancataldese e Nissa. Camminando però voglio ancora respirare questa giornata, che ho bramato per diverso tempo. Un mix di curiosità calcistica e ultras che garantisce sempre la riuscita e la soddisfazione. Qualche flebile raggio di sole sembra persino allentare la morsa del freddo. Il Mar Baltico si allontana chilometro dopo chilometro e con esso anche l’ennesima pagina da raccontare. Sono stanchissimo e nelle due ore di viaggio mi perdo in un sonno profondo, interrotto solo dal conducente, che mi sveglia una volta arrivati alla ZOB. Da oggi quella lezione della mia professoressa delle medie ha anche un contorno paesaggistico e storico concreto. Da oggi quella città della Lega Anseatica è di diritto entrata nelle mie mete di passaggio, dove ho potuto vivere e vedere con i miei occhi ciò di cui i libri di storia parlavano oltre vent’anni fa. I tasselli della memoria si costruiscono grazie alla curiosità e ai legami che trovano con le proprie passioni. Rimanendo fortemente nella testa e chiedendone ulteriori per continuare il proprio viaggio e la propria storia di vita. Per me essenzialmente autonoma e in eterno movimento!
Simone Meloni