Venire allo stadio a Roma, di questi tempi, è come travestirsi da Tafazzi e darsi delle grandi bottigliate sui gioielli di famiglia. Lo capisci già da quando ti avvicini e non si trova un parcheggio neanche a pagarlo oro. Te ne convinci, poi, strada facendo, con i pochi tifosi che si approssimano allo stadio e il traffico in ebollizione con la gestione all’amatriciana dei soliti noti. Troppo impegnati, negli ultimi tempi, ad imporre la propria forza al pericolo pubblico numero uno della città: i curvaioli di Roma e Lazio.

Bisognerebbe prenderla con filosofia, direbbe qualcuno. Forse più di qualcuno, che in fondo le emozioni da stadio non sa cosa vogliono dire. O peggio ancora fiancheggia la campagna repressiva di questore e prefetto per strizzare mensilmente l’occhio al bonifico bancario. Che puntualmente arriva copioso, corposo e gioioso. La terza è una locuzione adottata soltanto per rafforzare il suffisso “oso”, dato che di gaudio ce n’è ben poco in questa situazione.

Se si parla di incontri con squadre germaniche, non possono non affiorare alla mente, oltre al celebre Roma-Bayern Monaco del 1985 (in cui per la prima volta la Sud intonò “Che sarà sarà”), sfide come quelle contro il Norimberga, la Dinamo Dresda e, volendo fare davvero un significativo passo a ritroso, quella con il Carl Zeiss Jena. Incontri che videro una Roma vincitrice e sconfitta, ma con una certezza unica e riconosciuta in maniera ineluttabile dai diretti avversari: il suo pubblico. La sua gente. La spinta dell’Olimpico. Sì, quello stadio ridotto ormai a Teatro. E io ritengo persino offensivo, nei confronti proprio del teatro, contenitore di nobili arti come il balletto, la commedia o la drammaturgia, questo paragone. Al teatro ci si diverte, si hanno degli spunti e si passa del tempo in maniera spensierata. All’Olimpico semplicemente no. Non più.

Nonostante la retorica bieca e fantasticatrice di questo Stato, con i suoi personaggi pittorescamente autoritari che cercano di convincerci con veritiere falsità e concetti astrusi a qualsiasi logica. “Riportare la normalità allo stadio”. Certo. La normalità, giustamente, torna reprimendo. Ma poi quale sarebbe questa normalità di cui farfugliano i sommi personaggi? Io voglio conoscerla. Perché se parliamo di normalità allo stadio, allora bisogna togliere filtraggi, tornelli, barriere in curva, biglietti nominativi e steward, ripristinando la cara e vecchia domenica alle 15 e facendo tornare dentro tutti gli strumenti di tifo. O forse esistono due concetti diversi di normalità? Per carità, io sono convinto che ne esistano milioni. Ognuno ha la sua di normalità. Per me nulla di quello che è stato fatto in Italia nelle passate stagione, in ambito calcistico, ne assume però lontanamente i margini.

Il mio è un martello in testa. Che batte ininterrottamente. Mi avvicino agli ingressi privo di sentimenti. E la cosa mi abbatte. Mi fiacca. Mi smorza qualsiasi primordiale voglia di esaltarsi con il pallone. A me il pallone che rotola all’ombra del Colosseo ora non piace più. Ed è questa la triste notizia che mi auto comunico.

Ed è un peccato. Mi piange il cuore nel vedere una serata come questa. Con una partita pazza. La Roma sul 2-0, si fa riprendere e va a vincere nel finale con un calcio di rigore. La Sud sarebbe impazzita. Il boato sarebbe stato di quelli che i tifosi di Leverkusen avrebbero portato nelle orecchie fino al loro ritorno sul suolo patrio. Ma niente di tutto ciò. Il rumore del calcio dato al pallone e l’udire perfettamente le voci dei giocatori in campo, ti fa capire che da queste parti, per ora, è finito tutto. Nella peggior maniera possibile. E non penso neanche che la colpa vada imputata al mutismo dei 30.000 presenti (numero comunque bassissimo per una gara così importante. Ma anche il caro prezzi fa la sua parte indubbiamente), perché sono ancorato al concetto che nello stadio perfetto ognuno può e deve svolgere il loro compito. Ecco perché stimo gli impianti tedeschi. Poi ovvio, se ci date un Marakana di Belgrado, dove 70.000 persone seguono la gara in piedi e tifano nessuno dice nulla. Ma da queste parti, probabilmente, chiamerebbero la Luftwaffe per bombardarci.

E allora la scena è tutta per gli ottocento tifosi ospiti, che fanno il loro compito senza brillare ma senza sfigurare. Un po’ come nella gara di andata. Ma perdonatemi, parlare di ultras, di manate, sciarpate e cori in questa situazione proprio non mi va. L’Olimpico è il cimitero degli ultras e del tifo folkloristico, logico che in tanti non vogliano più entrarci. La paura di esser sotterrati in una fossa comune è tanta. E visto che a gestirle è direttamente il comune di Roma, per la riesumazione bisognerebbe attendere 25 anni. Troppa la paura di sapere cosa succederà in questo lasso di tempo. Per ora i loculi li può occupare il prepotente invasore istituzionale.

Testo Simone Meloni

Foto Cinzia Lmr