All’indomani dell’incontro tenutosi al Maschio Angioino fra una delegazione di parlamentari e ultras italiani del calcio e della pallacanestro, abbiamo fatto una chiacchierata con l’avvocato Emilio Coppola. Quarantenne, dagli anni ‘90 militante nelle curve napoletane di calcio e di basket, penalista dal 2009, Coppola è stato relatore di convegni sul Daspo in tutta Italia e fra i rappresentante delle 108 tifoserie italiane che hanno aperto il tavolo di confronto col Viminale. Coppola ha inoltre lavorato ad alcuni dei processi più importanti del mondo ultras negli ultimi anni, come quello per la morte di Sergio Ercolano ad Avellino, per il treno di Roma-Napoli del 2008 ed è stato inoltre difensore degli ultras napoletani nel dopo Ciro Esposito e negli incidenti di Milano durante i quali perse la vita Daniele Belardinelli. Ne è uscita fuori una lunga chiacchierata in cui si è spaziato dallo specifico di Napoli fino al mondo ultras in generale e nella sua interezza. Ve ne lasciamo lettura.

La legislazione in materia d’ordine pubblico negli stadi in Italia è molto particolare. Alla legge del dicembre 1989 che instaurò il Daspo sono seguite ben nove revisioni per provare a contrastare la violenza negli stadi, ma con quali risultati?

In Italia c’è stata una forte ondata di repressione, a prescindere dai vari governi che si sono susseguiti, che ha portato gli stadi a svuotarsi. Tra divieti e carte di fidelizzazione è diventato complicato anche reperire un biglietto.  Ma la fase forse più tragica l’abbiamo vissuta con il penultimo Ministro degli Interni, Matteo Salvini. Inizialmente presentatosi come un amico dei tifosi organizzati, aveva persino partecipato ad una festa del tifo organizzato milanista. Nell’estate del 2019, emanò il cosiddetto “Decreto Sicurezza bis”, che da avvocato ritengo molto prossimo ad una sospensione dei diritti umani. Nel resto d’Europa si sta lavorando per il superamento di questa criticità, in Italia invece, tale decreto ha fatto venir meno persino la possibilità di beneficiare della “particolare tenuità del fatto”, ossia di evitare il procedimento penale laddove il fatto non generava grave allarme sociale (come ad esempio per l’accensione di un fumogeno).

In più il decreto ha allungato il Daspo da otto a dieci anni per i recidivi. Un’altra novità molto significativa riguarda l’applicazione del Daspo anche per i reati non connessi alle manifestazione sportive, ovvero per scontri di piazza, droga, rapine o persino il semplice porto di attrezzi del proprio lavoro (martelli, cacciaviti, ecc.) all’interno dell’auto, che le questure potrebbero interpretare come atti ad offendere e per i quali potrebbero vietarti la possibilità di andare allo stadio, anche se ciò non ha la pur minima connessione con le manifestazione sportive.

Una mossa strana questa dell’ex Ministro Salvini, in virtù dell’iniziale vicinanza agli ultras. Come la si può interpretare?

Basti pensare che Salvini appartiene allo stesso partito che ha introdotto la Tessera del tifoso. Un partito che ha comunque una politica securitaria e che non vede di buon occhio gli ultras ed il tifo organizzato, o comunque i diritti civili più in senso lato, se si considera che ha mutuato le leggi speciali in materia di stadio anche nelle piazze e nelle strade. Anche se Salvini, ad onor del vero, ha solo piantato l’ultimo chiodo in una bara che già i precedenti governi avevano allestito.

C’è da dire che in Italia si è sempre legiferato in seguito all’emergenza, in seguito ai morti che purtroppo pure ci sono stati. Ma nessun governo si è assunto mai la responsabilità di legiferare in maniera organica e condivisa, riformando seriamente la materia della sicurezza seguendo il normale iter parlamentare. Ogni qualvolta c’è stato un evento dall’alto impatto emotivo si sono inasprite le pene senza alcuna riforma vera. E cos’è successo? Che sono stati eliminati gli strumenti di tifo, i treni speciali che permettevano ai tifosi di muoversi in sicurezza in trasferta. Si è di fatto penalizzato l’aspetto folkloristico del tifo ma non è stata combattuta la violenza, che continua a persistere e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. 

L’anno scorso si sono festeggiati i trent’anni del Daspo ma la violenza non si è mai fermata. Continuano anzi a registrarsi morti allo stadio in Italia, che è il paese in Europa dove – stragi a parte – se ne sono registrati di più: ben 32 i decessi dal 1920 al 2020. Cosa dovrebbe fare lo Stato per contrastare veramente le intemperanze dei tifosi?

Lo Stato dovrebbe semplicemente smetterla di lavorare sull’emergenza. I nostri politici devono sedersi e ragionare a 360 gradi su una riforma della repressione alle manifestazioni sportive, scindendo l’aspetto folkloristico che è un valore aggiunto per lo sport,dagli episodi di violenza che ormai avvengono quasi sempre lontano dagli impianti sportivi. Purtroppo chi in questi anni ha legiferato, spesso nemmeno comprende cosa significhi andare allo stadio e quali sono i comportamenti realmente pericolosi e quali quelli che non lo sono o lo sono solo simbolicamente. Si è vietato i treni speciali che invece erano una forma di controllo molto utile, riversando tutti i tifosi sulle autostrade e semplicemente spostando i luoghi dello scontro con esiti piuttosto nefasti. Basti pensare alla morte di Gabriele Sandri o di Matteo Bagnaresi avvenute appunto in autostrada o di Ciro Esposito, legata comunque alla strada. Si è pensato solo a reprimere gli aspetti coreografici nel tifo. Si sono vietati striscioni, tamburi, bandiere, si è ampliato il Daspo, quando sarebbe stato più sensato favorire gli aspetti positivi del tifo a scapito appunto della violenza. La violenza non è stata debellata perché chi ha legiferato lo ha fatto in maniera superficiale, pensando fosse un mondo da demonizzare tout court. Non hanno mai cercato di comprenderlo, questo mondo. Negli ultimi anni, molti non lo sanno, molte società calcistiche hanno varato il proprio “regolamento d’uso degli stadi”, con il quale impongono per esempio che si rispetti il posto assegnato dal biglietto anche in curva, e alla seconda violazione nello stesso campionato si può essere diffidati. E questo è uno strumento troppo forte ed arbitrario nelle mani di questori e società.

Un episodio particolare mi torna in mente, il 31 agosto 2008, match della prima giornata del campionato tra Roma e Napoli passato alla storia per la presunta devastazione di un treno da parte dei tifosi napoletani che poi avrebbero anche danneggiato la stazione Termini di Roma. Una sentenza del Giudice di Pace di Napoli ribaltò poi tutto. A sbagliare fu Trenitalia ma per mesi sono stati i Napoletani i mostri sbattuti in prima pagina. Potrebbe tornare su questa vicenda?

È stato il preludio all’introduzione della Tessera del tifoso, serviva una notizia che riportasse gli Ultras alla ribalta come emergenza nazionale. In quell’occasione fu negata la possibilità ai tifosi di prendere un treno speciale, in 3.000 furono ammassati su di un treno, in pieno periodo di vacanza. Per un vetro rotto si parlò poi di devastazione ed anche se la solerte Procura di Napoli archiviò velocamente il caso, questo non servì a fermare il divieto di trasferta ai sostenitori azzurri per tutto il resto della stagione. Nella stagione successiva poi, fu introdotta la Tessera del tifoso, su cui il mondo ultras negli anni si ritrovò inevitabilmente spaccato.

Il primo agosto scorso c’è stato un incontro importante a Napoli tra delegazioni ultras italiane e rappresentanti del mondo della politica e del governo. Per la seconda volta dopo l’incontro dell’11 aprile 2014. Perché aspettare sei anni per organizzare questo evento e portare avanti il dialogo?

Innanzitutto perché la cosa più difficile è stata mettere insieme i gruppi organizzati, più che la politica. Perché ci sono tante persone che la pensano in maniera differente, però questa volta abbiamo sentito la necessità di aprire una linea di dialogo con le istituzioni, perché ci siamo resi conto che dopo l’emergenza Coronavirus e gli stadi chiusi, anche alla luce delle straordinarie ondate repressive a Napoli così come qualche anno prima a Roma, abbiamo avuto il timore che col pretesto della pandemia allontanassero o eliminassero le forme di tifo organizzato dalle curve. Abbiamo avuto il fondato sospetto che i presidenti usassero la scusa del Covid per eliminare le sacche di dissidenza. Allora abbiamo iniziato a pensare ed agire in rete, insieme a realtà che da sempre hanno perseguito questa linea di dialogo, tra cui gli ultras della Sampdoria, i Brescia 1911, Bergamo. Ma soprattutto importante è stato il ruolo della Curva Sud di Avellino che, insieme ad altre realtà, ha contribuito a raggruppare ben 108 tifoserie italiane e 32 tifoserie campane. E abbiamo messo tutti allo stesso tavolo per la preparazione e la condivisione di un documento che abbiamo presentato prima in forma privata al Viminale, al Ministero degli Interni, nella figura del Vice Ministro Vito Crimi.

Poi abbiamo deciso di renderlo pubblico, nella cornice di una città significativa abbiamo lanciato questo documento per la riforma del calcio. Abbiamo chiesto che dopo l’emergenza Coronavirus, il calcio venga riformato mettendo al centro i tifosi. Attraverso alcune semplici regole che possono essere adottate sin da subito ed altre a carattere più generale, che spingono verso una riforma organica del sistema calcio. Abbiamo equiparato la situazione italiana a quella di altri paesi, visto che in Italia c’è il vizio di guardare agli altri paesi. Se si vuole guardare agli altri paesi, bisogna considerare che i tifosi vengono considerati centrali nello spettacolo calcistico. All’estero ci sono stati passi in avanti con l’istituzione delle Standing Area, addirittura con la possibilità di ricorrere ai fumogeni come strumenti coreografici e non vediamo perché non si possano adottare e riproporre le stesse forme di tifo e rimettere con esse i tifosi al centro del calcio.   

Il calcio del dopo Covid ha dovuto giocoforza riprendere a porte chiuse, ma ha chiaramente mostrato quanto spettrale possa essere lo spettacolo senza tifosi, e allo stesso tempo quanto necessaria sia una politica di ripopolamento degli stadi, che non può che partire da prezzi più umani.

Quello che abbiamo chiesto al vice ministro Vito Crimi è appunto di iniziare una riforma che parta dai prezzi popolari nei settori popolari ma che sappia guardare anche oltre. Prezzi calmierati per i settori popolari e prezzi calmierati per le trasferte, perché oggi l’incasso ai botteghini rappresenta solo il 7% del fatturato di una società, quindi è ingiusto spremere i tifosi che vanno allo stadio, specie considerando quanto accaduto dopo la ripresa del campionato, dopo l’emergenza Covid, allorquando le pay-tv anziché aumentare il loro appeal, così com’è avvenuto in Inghilterra o in Germania, hanno visto calare tanto gli ascolti quanto i ricavi dalla pubblicità. Tanto basta a evidenziare che il prodotto calcio, senza tifosi sugli spalti non ha lo stesso valore. E di questo ce ne siamo accorti prima di tutti noi a Napoli, dove abbiamo portato avanti una protesta durata circa quattro mesi contro il “Regolamento d’uso dello stadio”. Il calcio senza partecipazione, senza tifo perde parecchio, lo dicono anche gli allenatori, lo ha detto Gattuso, lo ha detto Mihajlovic in maniera molto chiara: «il calcio si gioca per i tifosi. Se mi chiedessero di scegliere se giocare senza pubblico o non giocare, sceglierei di non giocare». Il momento dunque ci è sembrato propizio per cercare di incidere e chiedere una riforma del calcio. O lo si riforma in questo momento o non ci riusciamo più.

Dopo l’emergenza sanitaria il calcio italiano ha voluto assolutamente ripartire, anche se la spinta non derivava certo dallo spirito sportivo ma da ovvi motivi finanziari. Ha ancora un senso per un ultras andare allo stadio oggi e legittimare questa industria, partecipando a questo spettacolo con il suo tifo?

Io stesso sono tifoso di una squadra che è più famosa per i tifosi che per i risultati sportivi. Al di là dell’epoca Maradona infatti, non è che si sia vinto granché. Detto questo, posso aggiungere che al “San Paolo” si va quasi come un rituale, ma la disaffezione per il calcio è sempre più palese. I dati dello stesso stadio partenopeo mettono i brividi se relazionati a qualche anno fa, quando persino in serie C si arrivava a numeri di gran lunga superiori. Oggi si stenta a raggiungere venti-trentamila spettatori nelle partite normali. E questo in una città che ha sempre vissuto di calcio è emblematico. Non credo sia legato solo ai risultati sportivi che non arrivano, ma dipende anche dalla gestione che certi presidenti hanno nelle rispettive società, in cui tutto è palesemente in subordine al business. È vero che i tifosi non dovrebbero sindacare sul portafoglio dei presidenti, però è ancora più vero che i tifosi sono gli unici clienti a non aver mai ragione.

Nel mio libro sviluppo una teoria, ormai consolidata, dello stadio come laboratorio della repressione. Lo dimostra il Daspo di piazza che anche in Francia ha trovato la sua applicazione nelle manifestazioni politiche. Cosa pensa di questa teoria?

Il dato è significativo del modo in cui il legislatore italiano si sia orientato negli ultimi anni. Nel 2001, uno striscione unitario dei tifosi italiani fu premonitore: «Leggi speciali, oggi per gli ultras domani in tutta la città», recitava. Il domani è già arrivato considerando l’introduzione del cosiddetto “Daspo Urbano”, ulteriore strumento che concede discrezionalità ai questori, alle polizie e ne toglie sempre più alla magistratura. È questo il punto su cui noi intendiamo lavorare, anche allo stadio, cioè ridare potere ai magistrati, affinché i tifosi, o chiunque commetta uno sbaglio, possano essere giudicato da una persona terza, non da un questore.

Come può il cittadino italiano medio accettare tutto ciò? A Roma, la municipalità ha usato un fumetto per spiegare nelle scuole cos’è il Daspo urbano. Una norma che, guardandola dalla parte opposta di chi tenta di sdoganarla, spinge per gentrificare i centri cittadini a beneficio dei turisti stranieri o di chi può permettersene i costi. Ma possibile che i mass media e la popolazione restino insensibili a tutto questo?

Il problema è soprattutto nella comunicazione sempre più imborghesita e nella mancanza di una reale opposizione politica capace di contrastare certe derive. A Napoli come altrove, per esempio, si sta facendo del centro una vetrina “turistificata” che finisce per togliere spazi ai napoletani che ci vivono. E questo chiaramente è osteggiato solo da realtà che difficilmente riescono a trovare risonanza politica o mediatica sul piano nazionale, risulta quindi difficile così creare un pensiero ed una coscienza sociale alternativa.Vivo in una città con un senso identitario molto forte ma chiaramente la turistificazione del centro potrebbe portare al cambio di usi e costumi locali che hanno fatto conoscere Napoli nel mondo, poi chiaramente bisogna anche comprendere che siamo in un contesto internazionale ma conosco la mia gente e venderemo cara la pelle!

Diversi episodi raccontano che anche Napoli è stata a suo modo un laboratorio repressivo: il 17 marzo 2001, quattro mesi prima del G8 di Genova, Napoli è stata teatro del Global Forum e la violenza dello Stato che avremmo poi vista amplificata a Genova, aveva già fatto capolino a Napoli.

Questa purtroppo è una città che subisce da anni una repressione legittimata dall’opinione pubblica nazionale. Nel 2017, la visita di un leader politico che fino a qualche anno prima definiva i napoletani “colerosi, terremotati”, fu contestata non solo dai centri sociali, ma da ogni napoletano a cui non faceva difetto la memoria. Finì con pretestuosi processi per devastazione e l’indiscriminata etichetta di violenza appiccicata addosso a tutta la città. La repressione che subisce Napoli è spesso figlia di una narrazione che la giustifica. Certe cose alimentano il distacco che si avete dall’interno di Napoli verso l’esterno e viceversa.

La città di Napoli è spesso vittima dei cliché. È successo recentemente anche con il film “Ultras” di Francesco Lettieri, che gli ultras napoletani hanno giudicato negativamente con alcuni striscioni esposti per le strade. il loro parere negativo sul film. Sintetizzare realtà complesse non è di per sé rinchiudersi spontaneamente negli ennesimi luoghi comuni?

Senza dubbio il regista del film – che pure stimavo – per il suo esordio cinematografico avrebbe potuto fare meglio: e questa è una mia riflessione. Più in generale, il film non è stato apprezzato innanzitutto per la rappresentazione che ne è venuta fuori del mondo ultras, perché è pur vero che alcuni aspetti narrati sono innegabili, però è vero altrettanto che su venti ragazzi, il lavoro più dignitoso era quello di bagnino, che è un lavoro di tutto rispetto, ma non è rappresentativo dei tifosi. I tifosi sono apparsi come dei perdigiorno che stanno fuori alle sale billiardo o giocano a carte dalla mattina alla sera. Chi vive la città sa che non è così, tanti lavorano, qualcuno fa un altro tipo di vita, ma è lo scenario ad essere decontestuale. Napoli e il mondo degli ultras napoletani in particolare, non avevano bisogno di questo film.

La cosa che più di tutte non è andata giù in questo film, è il tentativo sottile di cavalcare la tragedia di Ciro Esposito. Dal murales nel quartiere del personaggio morto alla partita di Roma che si disputava a maggio, ci sono troppe coincidenze che rimandano alla storia di Ciro, che tutti avrebbero gradito non fosse in alcun modo coinvolto nell’immaginario del film. 

E poi crediamo soprattutto che il mondo ultras vada raccontato da chi lo conosce veramente. Il fatto che l’abbia fatto questo regista in maniera quasi carbonara, non consultando nessuno, usando anche una simbologia, usando anche dei cori di appartenenza di alcuni gruppi, sicuramente non ha fatto piacere, perché il mondo ultras è anche un po’ geloso dei propri simboli e delle proprie tradizioni, tra le altre cose, specie quando vengono poi strumentalizzate a scopo di lucro.

Oggi tanti altri gruppi si mettono in scena, attraverso dei propri filmati sul web. Il modo di comunicare degli ultras è molto strano, da una parte si chiude in sé stesso dai tentativi esterni di raccontarlo, ma allo stesso tempo comunica molto in prima persona. Al di là della narrazione esterna deformante, come trovare una via di mezzo per far capire che il mondo ultras è altro, che tra i due estremi, coreografie e fumogeni o violenza e delinquenza, in mezzo ci sono tante altre sfumature che passano inosservate?

Bisogna innanzitutto fare un distinguo. Ultras in Italia è una parola grossa, ci sono realtà di provincia in cui si vive ancora il fenomeno in maniera sana, mentre nelle grandi città è molto più difficile. È innegabile che alcune realtà abbiano sfruttato la passione, il calore, i sacrifici di tanti ragazzi per fare business. Però chi non ha nulla da nascondere, chi la sempre vissuto in maniera sana, deve mostrare l’aspetto migliore di sé, è venuto il momento di mostrarlo, è giusto mostrarlo. Purtroppo ci sono realtà che lo vivono con la giusta apertura alla città, agli altri in genere, mentre ci sono altre dove, forse per paura di essere fraintesi o per istinto di protezione, non  passa lo spessore umano e i valori che tanti portano con sé nell’esperienza di curva. Spesso l’unica forma di aggregazione sana rimasta in tante città.

Il mondo ultras in Italia subisse una narrazione deformante da parte dei media, soprattutto non ci hanno fatto bene alcune vicende accaduteci a cui i servizi giornalistici non hanno reso onore alla realtà dei fatti. Che non è fatta soltanto di business e di delinquenza, ma anche di valori e principi che abbiamo sempre ritenuto importanti, tanto che nel 2001 è stato realizzato un documentario (EAM di Vincenzo Marra), non un film come qualcuno poteva immaginare, dove si intravedeva sì la violenza, ma si capiva anche che dietro al mondo del tifo organizzato ci sono ragazzi che conducono una vita assolutamente normale, che non tutti sono delinquenti. Il mondo del tifo organizzato è uno spaccato sociale a cui appartengono l’avvocato così come il commercialista o anche il ragazzo che magari conduce una vita, tra virgolette, diversa.

Da una ventina d’anni sono apparsi in Italia diversi avvocati-ultras. Giovanni Adami di Udine, Lorenzo Contucci a Roma, Giuseppe Milli di Lecce, lei. Questi legali hanno lottato molto a difesa del mondo ultras, come vedete il vostro lavoro?

Sono stati Lorenzo Contucci e Giovanni Adami ad iniziare questo percorso. Io sono venuto qualche anno dopo per un fatto anagrafico. Credo che il nostro lavoro sia importante innanzitutto perché siamo riusciti ad avere una forte specializzazione su un materia che è diventata molto complicata. Per il susseguirsi delle leggi, il continuo cambio di orientamenti, le continue pronunce della Cassazione. Il mondo del tifo è una grande cassa di risonanza e talvolta alcuni colleghi l’hanno anche sfruttata indebitamente a proprio vantaggio, a discapito dei clienti. Non può dunque che essere un vantaggio la nostra presenza, per la profondità di comprensione di certe dinamiche e per la salvaguardia dei nostri assistiti, che per una questione anche di vicinanza ideologica, per noi viene prima di tutto. 

Cosa significa essere ultras nel 2020?

Fare tanti sacrifici per la propria squadra, dedicare grande parte del proprio tempo, della propria vita e lottare in continuazione contro gli stereotipi. Io lo faccio nelle aule di tribunale, c’è chi lo fa per strada. È una vita molto complicata, ma la migliore vita che ci potesse capitare.

Intervista raccolta da Sébastien Louis
Già pubblicata in due parti sul quotidiano francese “Le Monde”, il 5 e l’1 settembre.
Foto di Giovanni Ambrosio – Ultras Youth.