L’enciclopedia Treccani definisce popolare ciò che è riferito al popolo, inteso sia come collettività dei cittadini, senza distinzione di classe, sia come insieme delle classi sociali meno elevate, socialmente e culturalmente svantaggiate.

Ammetto che, più per pregiudizio che per altro, per anni ho nutrito nei confronti dei progetti di calcio popolare una strana avversione. Pensavo, e tutt’ora penso, che il confine tra ciò che è popolare e ciò che non lo è, non è dato semplicemente dal business e dalle cifre a molti zeri che ruotano attorno ad un club, ma dalle emozioni che un rettangolo verde è in grado di regalare a chi vede e vive in senso collettivo i propri colori, prescindendo dal censo. Lungo questa direttrice penso che sia definibile come popolare persino il Barcellona di Pep Guardiola e Messi, squadra che, almeno per la mia generazione, ha rappresentato una macchina perfetta, vincente e spettacolare insieme: i Blaugrana sono arrivati ovunque e hanno divertito tutti, unendo classi sociali che normalmente non avrebbero avuto nulla da spartire. Popolare è stato quindi pure il tiki taka del Barca, come lo è il club di serie D che, fatte le dovute proporzioni, è ugualmente in grado di regalare emozioni ai propri tifosi. Insomma, per me è popolare tutto ciò che è inclusivo, laddove il perimetro non è dato dagli interessi economici che ci sono dietro ma dalle passioni che il calcio riesce a smuovere.

Questa mia convinzione, forse fin troppo personale, come dicevo mi ha sempre condizionato e portato a guardare con un certo scetticismo la proliferazione di queste esperienze calcistiche alternative. Non da ultimo non sopportavo, e tutt’ora non sopporto, l’associazione, per me forzata, tra calcio popolare e politica: forse per mia cecità o ignoranza, pensavo che questi club provenissero esclusivamente da ambienti politicizzati (per la maggior parte a sinistra, anche se pure a destra ne era saltato fuori qualcuno…), cosa che mal si concilia con l’immagine del calcio inclusivo nel senso elementare del termine, quello in cui ti ritrovi ad abbracciarti ad un perfetto sconosciuto dopo un goal, senza porti problemi dei suoi gusti sessuali, religiosi o politici.

Tutte queste riserve sono venute poi meno grazie alla conoscenza diretta dell’Ideale Bari: ho maturato l’idea che il punto di contatto tra la mia visione di calcio e la loro è dato non tanto dall’accezione che diamo vicendevolmente all’aggettivo “popolare”, quanto dal concetto di diversità che essi rappresentano e che ho avuto modo di riscontrare. Spostando l’attenzione su questioni prettamente ultras, allora vale quanto detto da “un’idealista” alle mie perplessità sulla longevità che poteva avere un progetto come il loro: se l’Ideale Bari durerà 10 anni o 100 poco conta, in fin dei conti anche i gruppi ultras più canonici, salvo rare eccezioni, durano poco più di qualche lustro, per cui tanto vale inseguire le proprie utopie.

E nel frattempo sono passati ormai dieci anni da quando lasciarono la Curva Nord (anche se più di qualcuno continua a frequentarla o non l’ha mai lasciata) e segnali di cedimento non se ne scorgono. In questo lasso di tempo le difficoltà che quotidianamente hanno affrontato non sono state poche, dai costi vivi da sostenere per tenere in vita il progetto in termini pratici e burocratici, le spese per l’affitto del campo dove disputano le partite, i costi per le divise e le trasferte, ecc. Non da meno sul piano ultras, dove invece, gli “idealisti” hanno dovuto “pagare” la loro cittadinanza: essere baresi quando vai in Salento o nel Tarantino comporta sempre problemi, al Campanile come al cuor non si comanda, così infatti non sono mancati incontri ravvicinati con chi, non incrociando direttamente la Curva Nord di Bari per differenti binari della vita calcistica, ha trovato in loro una via secondaria per tenere viva la rivalità, possibilità che gli stessi interessati da cotanta attenzione, non hanno a loro volta disdegnato.

Oggi invece l’Ideale Bari, sul campo di Palese, frazione alle porte di Bari famosa per l’aeroporto, affronta il Latiano, rappresentativa di un piccolo comune del brindisino che, come i padroni di casa, veleggia più o meno in zona play off. Si gioca giovedì otto dicembre e le possibilità di un giorno festivo di mitigare l’infrasettimanale, sono inficiate dall’orario (14:30) non propriamente conciliante con i riti e i ritmi del periodo, ma se l’afflusso di spettatori non è generalmente incentivato, quelli che devono esserci ci sono e tanto basta.

A rimarcare l’essenza del loro progetto, sulla vetrata dove si posizionano, citando gli 883, attaccano lo striscione “Come è bello il mondo insieme a te”. Per l’occasione sono presenti anche i ragazzi della Borgata Gordiani, gruppo che segue a Roma l’omonimo club di calcio popolare. Non sono presenti, invece tifosi ospiti, nonostante a Latiano esista un gruppo ultras, gli Irriducibili, che tra mille difficoltà segue la propria realtà calcistica cittadina.

Spostando l’attenzione al tifo non gli si può rimproverare nulla, l’impronta ultras si vede e l’esperienza li aiuta: compatti nella parte centrale del settore, alternano manate o cori secchi, accendendo in più momenti fumogeni, rinforzando il colore grazie allo sventolio di bandierine biancorosse. La partita in campo finisce in pareggio che, come amerebbe dire qualche telecronista, non accontenta nessuno.
L’impressione che ho maturato sul mondo Ideale Bari è di una realtà genuina, una famiglia allargata, dove tutti hanno un compito preciso, tutti uniti dal comune progetto: tenere in vita il sogno di un calcio diverso. L’unico vero e imprescindibile elemento di unione.

Piccola nota di colore: poco prima del fischio di inizio, il numero 15 dell’Ideale Bari ha ricordato al proprio compagno che in caso di difficoltà avrebbe dovuto spazzare via la palla. Nel calcio moderno, dalla serie A fino all’ultima delle categorie, la palla non va buttata, non si spreca nulla e quindi è meglio giocare sempre, ripartendo dal basso, ignorando però che se non hai le qualità di Baresi, la tecnica di Nesta o la furbizia di Sergio Ramos, è sempre meglio ricorrere ai cari vecchi schemi, cioè buttare la palla come un Chiellini qualsiasi. Anche spazzare la palla senza farsi irretire dalle mode e dai dettami tecnici del momento può essere calcio popolare.

Testo di Michele D’Urso
Foto di Michele D’Urso e Massimo D’Innocenzi

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