Il calcio che vorrei a volte assume contorni ben definiti agli occhi.

Il calcio che vorrei appartiene ai tifosi, liberi di esprimere i loro sentimenti, il loro essere e la loro arte senza limitazioni di sorta.

Il calcio che vorrei è fatto di due tifoserie l’una contro l’altra, di bandiere, coreografie, torce, sciarpe, esultanze vere, gente che si abbraccia senza conoscersi; è fatto di traguardi insperati e a volte quasi perduti appena un attimo prima; è fatto di sfide, agonismo e tribune piene; è fatto di tifosi che applaudono l’ingresso in campo della propria squadra e di fischi per quella avversaria; è fatto di un urlo liberatorio quando la luce si svela in fondo al tunnel dopo averla cercata e mai rinnegata per mesi interi.

Nel calcio che vorrei la gente salta in curva, canta, segue i cori dei “megafonisti” e coinvolge pure i meno avvezzi al tifo, magari quelli entrati nel settore per sbaglio o per indisponibilità di posti; in questo calcio le bandiere sventolano senza sosta e pazienza se qualcuno ha problemi di visuale.

Il calcio che vorrei conosce sicurezza, buon senso e non repressione: steward e polizia osservano, non mandano gendarmi in curva per una torcia accesa o per ragazzi seduti sulla recinzione e non scaricano dosi di rabbia repressa su chi non c’entra niente.

Il calcio che vorrei è festa, gente che si stringe per la gioia a fine partita, invasioni di campo e riflettori accesi fino all’orlo della notte perché nessuno, ma proprio nessuno, se ne vuole andare.

Nel calcio che vorrei è bello far foto all’una o l’altra curva facendo fatica a capire sotto a quale settore stare; la macchina scatta e ti ritrovi a casa con 400 foto fatte, e poi pazienza se ne tieni solo un quarto.

In Lugano-San Gallo ho visto un buon pezzo di quel calcio che vorrei sempre, e non solo di tanto in tanto. Troppo, troppo poco ultimamente.

Nel calcio che vorrei, lasciare lo spazio a foto e video vale più di mille parole.

Stefano Severi.