Sono tante le strade che portano agli stadi e percorrendole per raccontare chi in quegli stadi ci vive, si finisce inevitabilmente per incrociarle con loro, si finisce a coltivare rapporti interpersonali o a intessere semplici confronti “istituzionali”. Spesso, data la grondante e autentica umanità delle gradinate, perfino a costruire amicizie figlie della stima reciproca. Così è capitato con i ragazzi dell’Ideale Bari e così ci siamo ritrovati ancora una volta loro ospiti in occasione del quinto anniversario della loro fondazione.

Ventotto maggio duemiladoci, come recita la loro pezza. Cinque anni sono appena un passo nel lungo cammino della storia, ma comunque un passo importante in tempi di repressione asfissiante e in quell’alveo tutto particolare che è rappresentato dal calcio popolare. Ancor più importante se si considera che l’Ideale Bari è una delle poche compagini che quelle rivendicazioni per un calcio diverso le muove da una prospettiva smaccatamente ultras.

Ed è di questo che abbiamo tentato di parlare, invitati ad un dibattito all’interno di quella festa. Ci riprendiamo per iscritto quello spazio e la possibilità di proseguire il confronto, che proprio quando stava per scaldarsi ha dovuto cedere alla tirannia dei tempi tecnici, che incombevano per dare altrettanto e giusto spazio alle tante iniziative collaterali di giornata.

Stavamo dicendo…
Ad instillare il tarlo della ribellione al calcio dei padroni in Italia, più che l’antesignano AFC Wimbledon, è stato probabilmente lo United of Manchester. La squadra nata essenzialmente come alternativa dal basso al Manchester Utd della famiglia Glazer, ad un calcio visto come prodotto, dove i valori sportivi vanno in subordine a quelli economici. Un po’ come la Roma sotto la regia di Walter Sabatini, perdente di lusso sul rettangolo verde, eterna seconda dietro la Juventus, ma che produce 142 milioni di plusvalenze in 5 anni, per cui poco importa se ai tifosi tocca masticare amaro: i suoi investitori sono felici così.

Ci sono diverse contiguità, ma c’è anche una differenza sostanziale fra l’esperienza nostrana e quella che ne è stata d’ispirazione: una sovrapposizione della prassi politica a quella sportiva, della lottizzazione politica rispetto alla lotta politica vera e propria, quella di difesa e rivendicazione di istanze di interesse collettivo, comunitario. E la comunità del calcio è quanto di più eterogeneo possa esistere, quanto di più lontano possibile da una padronanza reale di questioni teoriche ed ideologiche.

Tutti ricordiamo la prima volta in cui andammo allo stadio da bambini e tutti ricerchiamo costantemente quelle sensazioni perdute, quella capacità di meravigliarsi di fronte alla bellezza del mondo, riempirsi le narici con l’odore dell’erba tagliata di fresco o gli occhi del suo verde abbacinante, il cuore che accelera quando la folla ruggisce, il respiro in apnea quando, in uno stadio rumorosissimo, cala il silenzio più totale mentre la palla rotola lentamente verso la porta sguarnita. Ma della politica onestamente non ricordo nemmeno un riverbero lontanissimo proveniente da quei giorni.

Personalmente ricordo anche quanto, diversi anni più in là, fosse già molto difficile riuscire ad instillare nei più giovani del gruppo il giusto modo di stare in uno stadio e fuori, come comportarsi durante gli spostamenti e con le altre persone, consanguinei ma parenti alla lontana o avversari che fossero. Mettersi pure a fare la catechesi politica, onestamente, sarebbe stato inaffrontabile. Anzi, a dirla tutta, ben presto avevamo smesso di credere a certe favole persino noi più grandi, che in verità avevamo inizialmente adottato tutta quella simbologia senza troppa coscienza, quanto piuttosto per provocazione “punk” verso il piccolo salotto cittadino.

Il mito della politica estrema allo stadio si consuma in larga parte in questi atteggiamenti sovversivi e istintivi, non a caso era facile vedere negli anni più remoti, fianco a fianco, celtiche e bambulé, bandiere italiane e giamaicane, figlie gemelle fino ad un certo punto dell’ignoranza: uno dei loro genitori era il desiderio di épater le bourgeois, incapace di accettare la diversità dei giovani che il loro spazio se lo prendevano così, infrangendo tabù, dicendo quel che non si poteva dire, facendo quel che non si poteva fare, tracciando distanze e differenze anche con provocazioni gratuite, persino stupide se vogliamo.

Però gli ultras allo stadio, nel senso stretto del termine, non si sono mai preoccupati di quello che vota, di quello che mangia, di come scopa o prega la persona di fianco a lui: se segnano la abbracciano, se caricano – celerini o tifosi avversari – la difendono. È un senso di comunità primordiale e grossolana, come può esserlo quello dell’appartenenza allo stesso quartiere, in tempi in cui i quartieri ancora si vivevano in maniera massiva, allorquando il terrorismo mediatico non aveva ancora chiuso tutti in casa a doppia imposta.

Il razzismo? È un problema sociale o civico, per meglio dire, prima ancora che “sportivo” e interesserebbe la società tutta: relegarlo al solo stadio lo circoscrive, lo sminuisce e lo banalizza. Lo si spazza così come polvere sotto al tappeto, ridicolizzandolo con campagne folcloristiche al limite dell’offensivo, nonché ipocrite perché avviate da quegli stessi referenti istituzionali che, in altre sedi, legittimano discriminazione non solo razziale, ma anche sessuale e di classe. Basti ricordare i biglietti “popolari” a 50 €, quelle “quattro lesbiche” del calcio femminile o gli “Opti Pobà che fino a ieri mangiavano banane nella foresta”. La società cosiddetta civile si guardi allo specchio e migliori se stessa, di rimando migliorerà anche il calcio e il tifo che ne sono uno spaccato.

Questo lunghissimo “off topic” non per dire che il mondo ultras in sé non debba occuparsi di istanze civili e sociali per editto del coglione scrivente, anzi c’è una schiera che lo fa, ma è una parte del tutto e non “il” tutto ma a guardare queste squadre di calcio popolare le proporzioni, le attitudini e le priorità sembrano completamente ribaltate. Non è questa la propensione naturale degli ultras che fanno invece gruppo, si radicalizzano, lottano attorno ad altri ideali e altre questioni molto più prossime al proprio mondo. Banalmente per la propria sopravvivenza ad onta di un mondo del calcio che spinge per schiacciarli: biglietti sempre più costosi a fronte di un’offerta televisiva sempre più economica; partite inaccessibili per orari e giorni mentre televisioni, computer e dispositivi mobili permettono di seguire tali eventi nei giorni e negli angoli più remoti. Poi c’è la repressione, sempre più violenta e ai limiti del costituzionale al punto che non si capisce più nemmeno quale sia il confine e chi siano i buoni e i cattivi. Ancora l’invasività delle agenzie di scommesse, il conflitto d’interesse di quante di queste sponsorizzano questa o quell’altra squadra e potrebbero aver vantaggio a vederla perdere, i ciclici scandali di combine legati a strani spostamenti di grossi capitali sulle partite apparentemente più insignificanti. L’annientamento più totale di tutti gli spazi sociali, dei valori identitari, persino delle interazioni minime fra tifosi e giocatori che non siano richiudibili in un flusso in un qualche modo commercializzabile, fosse anche qualche hashtag che aumenta la popolarità sul web dell’immagine e dei relativi diritti di quel dato calciatore.

È però la repressione a preoccupare maggiormente gli ultras, l’impossibilità di vivere il calcio come una volta per quel che concerne i gradoni. E questo da un lato non incontra la solidarietà di certi ambienti politici un po’ snob, che hanno sempre ritenuto subumano l’interesse degli ultras per l’oppio dei popoli (la controparte era impegnata invece a riempire quel vuoto e specularlo in termini di proselitismo). Dall’altro è stata la cosiddetta “mentalità” (scusate la bestemmia…) degli ultras a virare sempre più prepotentemente verso la “spoliticizzazione”: dopo l’alternanza ciclica fra destra e sinistra, oggi ha maggiormente peso l’idea che la politica debba restare fuori dagli stadi, che gli ultras non debbano essere né rossi e né neri ma liberi; idee tra l’altro favorite dalla criminalizzazione della simbologia politica in curva. Non è nemmeno un caso che tante di quelle piazze un tempo sinceramente antirazziste abbiano cominciato a de-politicizzarsi e a disertare inesorabilmente appuntamenti come i “Mondiali Antirazzisti” o simili per dedicarsi a questioni più pratiche, perché davvero il tema non era e non poteva più essere centrale nell’agenda ultras: non per cattiveria, ma se ti crolla il tetto in testa ed è minacciata la tua stessa esistenza, per forza di cose l’esistenza altrui passa in subordine. Per tendere una mano devi principalmente averne una.

Tutto il mondo ultras ha guardato all’inizio con forte simpatia al nascere e proliferare delle compagini di calcio popolare, proprio perché sembravano muoversi su terreni comuni, ma poi l’incedere del tempo ha palesato una loro maggiore concentrazione più sul piano calcistico-normativo-politico che non su quello ultras.

Quasi tutti questi sodalizi sportivi hanno una loro sorta di rappresentanza ultras, ma pochi hanno dimostrato di esser tali nel senso verace. E pure qualcuno che aveva numeri o attitudini tali da far sperare alla nascita di qualcosa di interessante s’è poi perso per strada, persino rinnegando regole e codici ultras, trascinando in questura storie nate nel contesto stadio. Certo, con sfondi e contrapposizioni apertamente politiche, ma se hai scelto quel modo di “giocare”, di connotarti, chiaro poi che ti esponi ad una serie di regole tutte particolari e che devi accettare. In alternativa, non inizi nemmeno a giocare.

E in questi anni in tanti hanno smesso di giocare, o hanno palesato quanto macchiettistica ed ornamentale fosse la loro presenza ultras, quanto effimera fosse la loro radice ultras. Pochi parlano davvero il linguaggio degli ultras: Ideale Bari, Brutium Cosenza, Quartograd Napoli, Ovidiana Sulmona, CS Lebowski per citare i pochi che mi vengono in mente. Mi scuso con quanti non mi sovvengono restando sospesi nel limbo, ma a parte queste e poche altre, c’è una pletora di compagini che in termini di istanze ultras non apportano un beato niente alla causa, sono più preoccupate da altre questioni: agli ultras si limitano ad ammiccare, nel migliore dei casi, si limitano a recitarne la caricatura.

C’è da portare il conflitto in termini ultras, riproporre istanze e problematiche dal basso. Far girare non a malapena 10 persone una trasferta l’anno, ma gruppi consistenti e costanti per le città e le province, specie nemiche, costringendo servizi d’ordine alla buona a pensare come gestire l’ordine pubblico con la testa e il buonsenso, non imponendo regole a suon di manganellate o candelotti lacrimogeni. Riportare tamburi, megafoni e striscioni in giro per dimostrare quanto stupidi, inutili e persino deleteri per la bellezza del calcio stesso sia il divieto imposto a questi strumenti di tifo. C’è da portare e accendere in quantità industriale torce e fumogeni contro la criminalizzazione della pirotecnica: se si può arrivare ad accettare che l’uso improprio della stessa, cagionando danno a cose e persone possa essere ritenuto esecrabile, è veramente assurdo il modo in cui è stata strumentalizzata per diffide massive e chirurgiche per tentare di estinguere un movimento scomodo: quello che più di tutti, persino degli stessi movimenti politici, ha in questi 50 anni aggregato giovani a pensare con la propria testa.

Pensando e parlando di azionariato popolare infine, non posso ripensare (citandole molto liberamente) alle parole di un amico di Ancona, che dopo la recente debacle dei dorici si espresse agli antipodi rispetto all’idea che esso rappresenti una sorta di panacea di tutti i mali: “basta con questa idea assurda che gli ultras debbano fare i dirigenti, i direttori sportivi, gli azionisti o i proprietari… che gli ultras facciano gli ultras e la società la faccia chi ha voglia e possibilità di mettere i soldi, senza star ad intercettare ulteriori fondi dalle tasche dei tifosi oltre quelli che già prendono dai biglietti e nonostante i quali poi, lo stesso incontrino il fallimento economico”. Ecco, magari queste sono parole di un innamorato ferito e deluso, ma dalla teoria alla pratica anche il calcio popolare presenta molte lacune solo restando allo stretto ambito calcistico, tanto che oltre ad Ancona anche a Taranto sono emerse le prime critiche al trust locale. Forse l’unico equilibrio possibile è rincorrendo una sintesi fra tutte queste esperienze, una terra di mezzo dove l’impegno sia diretto e non delegato ad altri organismi intermedi, retti solo da una fiducia formale e senza sorveglianza della tifoseria, ma qui tornerebbe il corto circuito del tifoso costretto a fare il dirigente per monitorare la bontà delle operazioni con i beni altrui, siano essi solo affettivi o anche economici. Più che una panacea di tutti i mali insomma, il calcio popolare sembra un cane che si morde la coda e per quanto ci si possa considerarla una soluzione migliore al calcio attuale, soluzioni o alternative in ambito ultras ne pone ben poche.

Matteo Falcone.