Dico la verità: in 16 anni di Olimpico è la prima volta che mi sono sentito a disagio. Senza mezzi termini. Tra le macerie di un qualcosa che non c’è più, i seggiolini vuoti di uno stadio che ha fatto registrare il suo record negativo di sempre in Europa, con 13.000 spettatori ufficiali (ai quali vanno sottratti tutti i rinunciatari, molti dei quali preventivamente avevano sottoscritto i mini abbonamenti di Champions, a prezzo consono per la competizione, e si sono poi visti declassare il “prodotto” a causa dell’eliminazione patita per mano del Porto, nonostante la somma pagata sia quella per la competizione “maggiore”), e l’atteggiamento dei pochi presenti che ha in più di un’occasione rasentato il ridicolo. Davvero, nessuno se la prenda, ma se il tifoso romanista del futuro prossimo dovrà essere un fenomeno da baraccone, io alzo le mani. Mi pento e mi dolgo di tutti i peccati commessi nella vita precedente.
Ci penso già mentre percorro il vialone che dall’ex Ostello della Gioventù mi porta all’ingresso della Monte Mario. Mi guardo in giro. Vedo principalmente turisti con maglia e cappelli della Roma. Ovviamente tutti recano il nuovo stemma, quello più simile ai “falsoni” di inizio anni 2000 che al materiale ufficialmente riconosciuto da una società calcistica. Li indossano come si indossa la classica t-shirt col nome della città acquistata nel luogo di villeggiatura. Il club per cui in tanti hanno sofferto, pianto e gioito, tutto a un tratto è diventato un perfetto ricettacolo del peggior turismo commerciale. Una sorta di Barcellona o Real Madrid, senza i loro trofei chiaramente. Una caricatura calcistica. Avverto una distanza siderale tra coloro che camminano ordinati, con le facce pittate di giallo e rosso e le maglie di altre squadre e il mio passo volontariamente claudicante.
Oggi sarebbe stata una serata da Curva Sud. Una nottata per pochi intimi, ma per quegli intimi gaudiosi nel sostenere la propria squadra, immersi nell’umidità di questo microcosmo compreso tra il letto del Tevere e la collina di Monte Mario. Ma così non è più da tempo. E forse è proprio il senso di romanismo, da cui l’assenza del tifo organizzato non può prescindere, ad esser stato riposto. Ma non solo. La Roma usata come mezzo “per” rischia di diventare la pietra tombale di tutto quello che dal 1927 ha rappresentato in città. Un mezzo per pubblicizzare, ampliare di portata operazioni di marketing che nulla hanno a che vedere con il calcio e i suoi protagonisti, ma inesorabilmente vi debbono essere legati come il peggior effetto collaterale di un farmaco scaduto.
In questo caso hanno Grandi Sorelle che fanno scalpore, invadendo forse campi che non le competono, e Grandi Fratelli a cui aumentare l’audience. E chiaro che quando gli affar di casa finiscono in bocca anche al simpatico Alfonso Signorini, rendendo una squadra di calcio e la sua tifoseria delle macchiette in diretta nazionale, qualcosa non va. Del resto c’è un difetto di fabbrica ancora prima, ed è quello mediatico. Ammesso che la Capitale possa ancora fregiarsi di un apparato comunicativo vero e intellettualmente onesto. In tanti si sono nascosti/si nascondono, dietro la loro ignoranza e il loro doppiogiochismo per un pezzo di pane ammuffito. Perché fa comodo così e perché fondamentalmente tutto è concesso (ovviamente se si supera il metro e novanta di altezza, al di sotto si rischia di esser facilmente bacchettati, con tanto di damnatio memoriae). La piccolezza di questa città (materialmente immensa, mentalmente chiusa più di un qualsiasi borgo medievale dove nessuno entra da 400 anni) emerge anche e soprattutto dalla sua classe giornalistica, rintuzzata nella sua fantozziana élite ancor più di quella politica, in questi giorni impegnata in una lotta intestina che, parallelamente a quanto succede nel pallone, va solo e soltanto a scapito di Roma città e dei suoi martoriati abitanti.
Il tutto produce frammentazione, come già non esistesse a causa della trasformazione dello stadio in un laboratorio di feroce repressione. Una divisione in cui le varie componenti corrono a corroborare le proprie tesi su un personaggio invece che su un altro. Su un’idea singola anziché sul bene comune. Chi ci rimette è la forma mentis che sempre ha aleggiato al di sopra di tutto, facendo da collante per un intero popolo: la Roma. Ma a qualcuno interessa ancora tifarla, fare informazione corretta su di lei e rinvigorirne i fasti? Oppure deve diventare una latrina dove gettare tutta la fanghiglia a disposizione alle prime occasioni possibili? Ci si rende semplicemente ridicoli agli occhi del mondo. Altro che brand, altro che marchio internazionale, altro che Capitale d’Italia. Quando capiremo che tutte queste etichette sono speculari alla nostra idea di grandezza legata a un Impero scomparso 2000 anni fa e sostituito da buche, mezzi pubblici fetidi e classi politiche voraci e lassiste? Fattori lontani ma connessi. Ci sta poco da fare.
Sì, dicevo che mi sono sentito a disagio. Più che a una partita di calcio, peraltro a livello internazionale, è sembrato di assistere alla Sagra della Porchetta di Ariccia. Versione ridotta, sia chiaro. Se in campo il livello tecnico è da campetto parrocchiale, sugli spalti qualcuno prova a improvvisare qualche minuto di tifo. Dura poco, lo spazio di un quarto d’ora iniziale, aiutato anche dal risultato ovviamente (del resto si è provato a fare la stessa cosa con la Samp, salvo poi piombare in un religioso silenzio al 2-1 dei blucerchiati, laddove il pubblico dovrebbe aiutare e non silenziarsi). Poi ognuno per la sua strada. Salvo qualche coro per i giocatori, il “Tanti auguri a te” cantato a Totti e il “Capitano pagace da beve” mormorato allo stesso. Sempre dai Distinti Sud, lato Monte Mario. Un sostegno da osteria, per l’appunto. Non giudico, ognuno fa ciò che vuole, ma è innegabile dire che il tifo della Roma è ridotto ormai a ridicola rappresentazione di ciò che fu. E non perché abbia qualcosa contro Totti (le sue gesta calcistiche sono quanto di più sublime abbia potuto vedere in maglia giallorossa, e chi ti ha fatto esultare più di 300 volte va soltanto ringraziato), ma perché la serata da karaoke di periferia preferirei passarla in qualche locale del mio quartiere. E perché siamo sempre là: alla prima difficoltà pioveranno i fischi. Verranno fuori le fazioni, Spallettiani, Tottiani, Pallottiani, Sensiani. Qualcuno ritirerà fuori anche Anzalone, probabilmente. Qualcun’altro si appellerà a Padre Pio, Madre Teresa di Calcutta e Giordano Bruno. Bruciando sul rogo, da vittima sacrificale.
Che carrozzone siamo diventati. Neanche a Viareggio di martedì grasso.
Testo Simone Meloni.
Foto Cinzia Lmr.