copertinaL’uscita di un libro autoprodotto è per il sottoscritto sempre un evento: non c’è aspetto migliore che farsi raccontare una realtà del tifo italiano da chi l’ha vissuta e la vive al suo interno. È ovvio che si rischia di cadere nella banalizzazione di esaltare la propria tifoseria per denigrare magari gli avversari, ma in questo caso ciò non succede.

“Il mio Tricase, la mia vittoria!” ci porta indietro nel tempo fino ai pionieri del tifo a Tricase ed arriva praticamente ai giorni nostri, raccontando le evoluzioni della tifoseria parallelamente a quelle della squadra. Un punto saliente dell’opera in quanto non si sorvola sull’aspetto calcistico ma lo si tiene in viva considerazione, anche se i protagonisti del libro sono sempre loro, gli ultras di Tricase, con le loro particolarità e le loro storie. Perché l’ultras non è uguale da nord a sud, chi conosce certe realtà non può non trovare differenze anche sostanziali e la chiacchierata con l’autore ci permette di schiarirci un po’ le idee.

Grazie a Pasquale Scarascia per la disponibilità dell’intervista:

Partiamo dal libro: per gli amanti del genere, quante copie sono state prodotte? Come ha risposto Tricase all’uscita di questo volume?
Sono state prodotte 500 copie e Tricase ha risposto come al solito un po’ sonnecchiosamente, ma coloro che erano interessati lo hanno gradito.

Fino ad oggi il libro autoprodotto è stato quasi esclusivamente a scapito di tifoserie o gruppi medio-grandi: come è nata l’idea del libro? Quanto tempo hai impiegato nella stesura dello stesso e quali difficoltà hai incontrato?
Intanto vorrei chiarire un aspetto per me fondamentale, quello di avere la stessa dignità di un qualsiasi Ultras o Tifoso di qualsiasi squadra. Per me essere Ultras del Tricase è bello come lo è esserlo della Juve, Milan o Inter.
L’idea del libro è nata nel momento più difficile della storia del calcio locale e lo ritenevo un contributo per cercare di rianimare l’entusiasmo sopito e mettere in comune tanto materiale raccolto negli anni.
Ho impiegato circa un anno e mezzo e non è stato difficile perché ho solo raccontato secondo il mio punto di vista una storia, quella degli Ultras Tricase, che ho vissuto sin da piccolo.

Nomi, cognomi, soprannomi… il libro ci racconta della nascita del movimento ultras a Tricase come di una bella cricca di amici e familiari che hanno unito conoscenze ed entusiasmo. È una esatta lettura del fenomeno o i natali sono stati più complicati?
Forse dal libro traspare questa valutazione, ma non è così. Perché il Tricase ha avuto sempre il seguito e la sua tradizione. Sicuramente amici lo eravamo, ma con il Tricase come comune denominatore, in molte situazioni ognuno aveva la propria vita.
Essendo proprio l’esatto contrario della valutazione che hai dato, è stato complicato unire tante teste e tanti pensieri diversi.

In una realtà come Tricase, lontana dai riflettori dei grandi palcoscenici, quali sono state le difficoltà maggiori incontrate nella nascita e nella crescita del movimento ultras cittadino?
Il movimento Ultras a Tricase nasce con la passione e l’amore per la maglia e fino a che c’è stato questo come fattore, difficoltà non ne abbiamo avute. Le difficoltà sono state solo fare sintesi su tante vedute.

Nel libro si evince un rapporto abbastanza stretto tra tifoseria e giocatori, o almeno con alcuni di questi: è possibile in certe categorie incitare ancora il singolo giocatore? Orazio Mitri che si rifiuta di battere un rigore contro la sua ex squadra, è il simbolo di un calcio che crede ancora in certi valori?
La piccola realtà ha certamente facilitato il rapporto con i calciatori, anche se personalmente non ho mai approvato poiché pensavo di essere condizionato la domenica, se avessi voluto mandare a quel paese qualche mio calciatore. La tifoseria del Tricase è sempre stata un po’ restia all’incitamento al singolo, anche se lo abbiamo fatto con diversi calciatori. Orazio Mitri gioca con me nel campionato amatori ed è una brava persona, oltre che un calciatore di serie A, ma il rigore lo avrebbe potuto tirare: non credo a questi gesti, come credo che i calciatori a tutti i livelli pensino a se stessi (giustamente). Io credo e sostengo la maglia, solo la maglia.

Il libro non risparmia storia di amicizie ma soprattutto di rivalità: in una realtà piccola come Tricase sono chiari ed evidenti le possibili problematiche per chi vuol andare oltre le righe. Negli anni, avete mutato il vostro atteggiamento per evitare di cadere nella rete repressiva? Le nuove leggi in vigore in materia stadio, quanto hanno cambiato il vostro modo di pensare ed agire?
Una cosa era fare una trasferta nei campi professionistici ed un’altra era farla nei campetti di provincia con un solo carabiniere per 1000 persone. Le risse e minacce a mano armata erano sempre dietro l’angolo e non c’era nessuno a difenderti. Quindi se volevi andare oltre le righe dovevi sapere le conseguenze, ma certo che si andava oltre le righe molto più di adesso, però solo quando e come si poteva. Con l’avvento della polizia nei campi sono cambiati gli atteggiamenti e i provocatori di incidenti, ed anche noi siamo stati colpiti da diversi DASPO. Le nuove leggi hanno condizionato da tempo gli atteggiamenti.

11 maggio 1997: il Tricase è in serie C, il vostro punto più alto della storia calcistica. Cosa ti ricordi di quel periodo? L’entusiasmo ha avvicinato nuovi tifosi?
Quegli anni sono stati bellissimi ed hanno avvicinato tantissimi tifosi, ma io vengo da anni diversi, dove chi era a fianco a te era tifoso a prescindere dall’entusiasmo e preferisco ricordare questo.

Nelle foto presenti a fine libro, ho notato qualche bella coreografia: qual è quella più riuscita e quella che ha dato maggior soddisfazione?
Sì, abbiamo fatte diverse coreografie, tra le quali io preferisco quella della copertina del libro. Campionato di Interregionale 1995/1996 Tricase-Nardò: nella Est esponiamo undici Stendardi che ritraevano le maglie numerate del Tricase e con una scritta al centro “IL MIO TRICASE”, a significare che il Tricase è solo fatto appunto da undici maglie.

Capitolo trasferte: dai racconti si passa da quelle di massa nei derby a quelle più lontane ed impegnative della serie C. Come è cambiata l’organizzazione delle trasferte negli anni? Quali sono quelle che ricordi con particolari emozioni?
Adesso siamo di meno ed è molto più facile, allora era complicato: il sabato eravamo 50 e la domenica mattina alla partenza a volte ne trovavamo 70 e a volte 30. Ma siamo sempre partiti. La trasferta di cui parlo sempre è quella fatta a Melfi nel 1995/1996, partita di campionato insignificante e allerta meteo, siamo partiti con il treno da Tricase. Una pazzia! Potete capire solo se conoscete i nostri servizi per i trasporti.

Capisco che è sempre poco simpatico parlar male di una tifoseria, ma in questo caso ti chiedo il contrario, cioè se c’è stata una tifoseria che vi ha ben impressionato a Tricase.
Ne sono passate tante, personalmente i tarantini sono quelli che di più mi hanno impressionato.

Com’è la realtà del tifo a Tricase oggi? Come vi confrontate con le problematiche attuale del movimento ultras?
Oggi il Trocase milita nel campionato di Promozione, dopo essere ripartito dalla Terza categoria una decina di anni fa. Facciamo l’impossibile per tenere alto il nome del Tricase. Siamo una settantina e facciamo tanti sacrifici. L’entusiasmo, anche se a volte passa, riusciamo a farcelo ritornare. Certamente è tutto diverso rispetto agli anni ottanta e novanta.

Domanda finale scontata: come richiedere informazioni ulteriori sul libro o sul suo acquisto?
Mandare una mail a scarascia.box@alice.it o cercarmi su facebook (Pasquale Scarascia – Tricase).

Intervista raccolta da Valerio Poli.