I primi anni Trenta, in Europa e nel mondo, rappresentarono un momento decisivo nella definizione di quelle condizioni che avrebbero spianato la strada alla seconda, grande deflagrazione bellica del Secolo Breve: fu l’epoca in cui si espansero nel mondo i regimi totalitari; della paurosa crisi economica statunitense, che conobbe ripercussioni profonde – soprattutto a livello sociale – anche nel Vecchio Continente; della negazione e cessazione – in diversi Paesi – dei diritti elementari; dell’odio razziale e dei conflitti etnici.

Un quadro regressivo, quello appena delineato, che strideva con il notevole progresso scientifico e tecnologico registratosi tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, quando l’umanità – almeno nella parte occidentale del globo – sembrò aver varcato la soglia di quel corridoio che avrebbe dovuto condurla ad un consistente miglioramento della propria esistenza, sia in virtù delle numerose scoperte ed invenzioni – favorite anche dal clima filosofico e culturale del Positivismo – che ne ottimizzarono le condizioni materiali di vita, sia per il riconoscimento di maggiori diritti rispetto ai secoli precedenti (si pensi soltanto all’estensione del suffragio universale maschile, alle prime lotte condotte dalle donne per il riconoscimento dei propri diritti politici e alla diffusione dei sindacati anche al di fuori dell’Inghilterra).

Proprio in questi “anni ruggenti”, contestualmente ad un sempre maggiore benessere delle persone generato dall’aumento dei consumi, anche lo sport – seguendo le tendenze in atto nella società – cominciò a convertirsi in un fenomeno di massa: una pratica, cioè, non più elitaria e coltivata quasi esclusivamente nel recinto delle classi aristocratiche, ma una manifestazione fruibile da un raggio molto più esteso di interessati. Mentre le élite si dedicavano alla pratica del pattinaggio sul ghiaccio, del tennis o del golf, le folle erano attratte, invece, dalle gare ciclistiche ed automobilistiche, dalle competizioni aeree e, ovviamente, dalle nuove discipline che prevedevano l’uso della palla: il rugby e il calcio.

Proprio in quel tempo, risorsero le Olimpiadi, a dimostrazione di come lo sport costituisse ormai un elemento centrale della società. Non è raro ammirare, in certe immagini d’epoca in bianco e nero, un numero impressionante di appassionati stipati come sardine in barattolo su gradinate pericolanti: oggi, i paladini della safety a tutti i costi, anche oltre il buon senso, griderebbero indignati allo scandalo (e lasciatemi utilizzare il termine inglese: mi diverte sbeffeggiare certe aberrazioni linguistiche fatte proprie dai numerosi benpensanti nostrani, grottescamente asserviti alla nuova e apparentemente innocua dittatura culturale proveniente dall’altra sponda dell’Atlantico).

In men che non si dica, il calcio si diffuse dalla sua culla d’Oltremanica negli altri paesi europei, giungendo anche nella nostra nazione: centro dell’irradiazione peninsulare del nuovo sport fu il triangolo Genova – Milano – Torino (comprese le cittadine demograficamente più modeste, come Casale Monferrato, Vado, Vercelli e Novara, che ottennero successi straordinari nei primi campionati di calcio ufficiali). Spesso i campi da gioco furono collocati nelle vecchie piazze d’armi oppure nelle zone campestri intorno ai centri urbani. Quindi, contestualmente alla crescente popolarità del nuovo divertimento tra gli italiani in età umbertina e poi giolittiana, iniziarono a diffondersi le prime strutture stabili, prima che il regime fascista desse un ulteriore e decisivo impulso al fenomeno, allorché in Italia furono costruiti numerosi “stadi del Littorio”, molti dei quali ancora utilizzati o comunque esistenti: si pensi soltanto all’ “Artemio Franchi” di Firenze, al “Romeo Menti” di Vicenza, al “Della Vittoria” di Bari e a molti altri.

L’erezione dei nuovi templi di questo sport – orami entrato nelle preferenze degli italiani – era capillare su tutto il territorio nazionale: non soltanto, quindi, nelle grandi metropoli e nei capoluoghi, ma anche nei tranquilli centri della provincia. Restringendo così la focale a quel lembo di terra – il basso Lazio – stretto da due mondi geograficamente prossimi ma culturalmente differenti quali sono i territori gravitanti rispettivamente su Roma e Napoli, e tornando con l’immaginazione indietro nel tempo, concentriamoci su una cittadina che vantava antichissime origini volsche, poi divenuta la romana Frusino e definita da Silio Italico, nei suoi Punica, bellator Frusino (espressione poi assunta come propria denominazione dalla prima squadra di calcio cittadina in ordine cronologico, un sodalizio dai colori rossoblù ripresi dal gonfalone comunale).

A Frosinone, si diceva, nel 1932 ˗ all’inizio di quei “terribili anni Trenta” che ho rievocato nelle prime battute di questo articolo ˗ nei pressi del fiume Cosa, un piccolo affluente del Sacco, in un’area non ancora densamente urbanizzata come ai giorni nostri, ha inizio, su progetto dell’ingegner Edgardo Vivoli, la costruzione di uno stadio per il football , quello che poi sarebbe diventato il “Comunale”, anche se universalmente noto come “stadio Matusa”. Tale intitolazione fu conferita all’impianto alla fine degli anni Settanta, quando, a motivo del suo aspetto vetusto conseguente alla mancanza di interventi di ristrutturazione, un cronista del posto lo associò a Matusalemme, un patriarca antidiluviano vissuto, secondo il racconto della Bibbia, per ben 969 anni, divenendo proverbiale per la sua longevità (non a caso, la parola Matusa ha conosciuto un uso quasi antonomastico, per cui l’espressione: “sei un Matusa!” si adopera per indicare una persona particolarmente longeva o per schernire idee conservatrici e superate).

Ironia della sorte: proprio nello stesso anno, in una cittadina distante una 50ina di chilometri dal capoluogo ciociaro – allora chiamata Littoria, oggi divenuta Latina – veniva posta la prima pietra dello stadio “Domenico Francioni”, che poi avrebbe ospitato, al pari del “Matusa”, tanti, leggendari derby tra due squadre e due tifoserie divise da una sentitissima e duratura rivalità.

Iniziava così la storia gloriosa di un tempio del calcio che avrebbe fatto innamorare ˗ per la sua particolare architettura, per la sua posizione e per il suo calore ˗ innumerevoli sostenitori del sodalizio canarino ma anche tanti appassionati di calcio, tifoserie e stadi che, invece, non provengono da Frosinone e provincia né sono tifosi del Frosinone Calcio, come il sottoscritto.

Non nascondo che l’impianto ciociaro mi ha letteralmente stregato fin dalla fanciullezza, quando ero già follemente attratto da questo mondo, iniziando a gustare il succo di una passione che mi avrebbe costantemente ristorato, donandomi sfogo e, spesso, conforto in tante circostanze della vita. Lo stesso effetto hanno esercitato su di me altri due impianti: il vecchio “Comunale” di Teramo e il “Fadini” di Giulianova (che, fortunatamente, sono ancora in vita, benché quello teramano non sia più la sede delle gare interne della compagine biancorossa).

Ricordo, come se fosse ieri, la mia prima partita vista da queste parti: un Frosinone – Benevento terminato con la vittoria esterna degli stregoni. Era l’8 febbraio del 1998 e, scusate il gioco di parole, avevo appena otto anni; ma ricordo ancora distintamente l’incanto e l’adrenalina che mi assalirono dolcemente (lo so, è un ossimoro, ma il turbinio di emozioni provoca sempre sensazioni contrastanti) girando tra i palazzi – ovviamente accompagnato – prima di prendere posto nella tribuna centrale coperta, e osservando quella marea di sciarpe e vessili gialloazzurri che, pur non essendo i miei colori, non mi lasciarono comunque indifferente (e ammetto che questa sensazione la provo anche adesso, in qualsiasi stadio metta piede, laddove – naturalmente – sia radicata una forte passione popolare).

Quella gara rappresentò il mio primo approccio con il mondo ultras: ricordo ancora nettamente il coro “La stazione dov’è?” rivolto dalla Nord ai sostenitori sanniti, che, ovviamente, non riuscii a decodificare immediatamente – data l’età -, ma che poi avrei interpretato in maniera corretta una volta venuto a conoscenza degli episodi accaduti alla stazione ferroviaria di Benevento nel maggio del 1996, quando il Frosinone andò a giocarsi la promozione in C1 nell’allora “Santa Colomba”, in una sfida da brividi.

Poi, da quel pomeriggio, si sono registrate tante altre mie visite, prima di toccare il picco quando, ottenuta la patente di guida allo scoccare della maggiore età, ricevetti in dote anche la tanto agognata autonomia negli spostamenti: una libertà che mi avrebbe fatto girare, ogni domenica, per tutto il comprensorio, da Formia a Latina, da Sora ad Avezzano, dai Castelli ad Anzio ˗ come un novello e parimenti smanioso Alfieri ˗ al seguito della partitelle e degli ultras (parlo del tragediografo romantico, naturalmente, non di Giorgio, protagonista di quel noto reality dedicato al calcio… a proposito: che fine ha fatto il Cervia?).

L’ultima mia partita al “Matusa” risale al 25 aprile di quest’anno: non avrei mai immaginato che la gara tra il Frosinone e lo Spezia sarebbe stata, per me, l’atto finale in quel di via Mola Vecchia; tuttavia, alcuni impegni personali sopraggiunti inaspettatamente non mi hanno permesso di assistere né alle ultime gare dell’undici ciociaro tra campionato e spareggi, né alla festa organizzata per omaggiare l’impianto. Ecco perché, nella rovente mattinata di un anonimo martedì di fine giugno, approfittando del tempo libero, ho deciso di venire per l’ultima volta tra questi palazzi e mettere piede su un manto erboso che tante ne ha viste, per porgere il mio estremo e deferente saluto ˗ da devoto del calcio che fu ˗ ad uno degli ultimi suoi templi, tristemente destinato all’abbattimento ˗ tranne che, pare, la tribuna coperta ˗ per lasciare spazio ad un parco pubblico.

Così, approfittando della gentile concessione di un addetto del Frosinone Calcio – lo ringrazio sentitamente – che ha aperto le porte dello stadio a me e al “collega” Simone, ho avuto la possibilità di sognare ad occhi aperti ancora solo per qualche istante, prima di venire catapultato, bruscamente, nella realtà, con la visita al nuovo “Benito Stirpe”, che sarà la casa del Frosinone dall’inizio ˗ o quasi ˗ della stagione agonistica 2017/2018. Certo, questo giovane stadio è davvero ben costruito e mette in evidenza l’ottima organizzazione societaria e il grande lavoro del club ciociaro, che negli ultimi anni ha costruito qualcosa di importante sia a livello tecnico che, soprattutto, gestionale. Tuttavia, secondo il mio modesto parere e il mio gusto, questa struttura così moderna non eguaglierà mai la magia della precedente dimora: parafrasando il titolo di un noto film per adolescenti di qualche anno fa, con protagonista un Silvio Muccino ancora ragazzo, mi viene soltanto da dire: come te nessuno mai, caro e glorioso “Matusa”!