Dalla stagione della sconfitta nella finale playoff di Serie C con il Pisa, parallelamente a quella particolare fase ascendente della propria compagine, Foggia è assurta prepotentemente nel novero delle migliori tifoserie del panorama ultras italiano. Non che grosso modo non lo fosse già prima. Una condizione comunque, che ancora permane nonostante la società rossonera viva ora un periodo a dir poco interlocutorio. Questo inoltre al netto della frammentazione in due differenti Curve. O forse proprio in ragione di ciò, dato che non sempre la convergenza di diverse anime del tifo in un solo settore corrisponde ad una somma matematica. Che poi a volerla prendere lunga è stata questa una peculiarità a suo modo storica della tifoseria foggiana. Ed è esattamente quello che ci raccontano, insieme ovviamente a tanti altri particolari, Francesco Berlingieri e Costantino Mariella in “Il nostro tifo è un inferno – Storia del tifo organizzato a Foggia dagli albori al 1991”. Libro uscito a novembre per la “Hellnation libri”, casa editrice da sempre attivissima nel campo sottoculturale. Il prezzo di copertina è di 20 €, l’ISBN per chi volesse ordinarlo dal proprio librario di fiducia è 9788867183265. Unendo il dilettevole all’utile, potreste addirittura ordinarlo presso la libreria “Velasquez” di uno dei due autori, sostenendo così al contempo la sempre lodevole iniziativa di una libreria indipendente.

Svolti i compiti strettamente tecnico-informativi torniamo al nocciolo della questione. Come si è già intuito si parla di un libro a carattere storico. Anche se non è del tutto corretto dirlo perché l’argomento è spesso davvero impossibile da storicizzare, seppur gli autori siano quasi sempre riusciti nell’arduo compito con un approccio davvero rigoroso. E poi perché emerge la propensione di Berlingieri al romanzo e la sua indiscutibile bravura che abbiamo già avuto modo di apprezzare in tutti i suoi precedenti lavori. Da “Juve o Milan? Meglio il Foggia” (scritto a più mani anche questo) a “E non vorrei lo sai lasciarti mai perché” finendo con “Pallone, asfalto e betoniere”, giusto per restare ai soli da noi letti e recensiti.

La commistione di registri che ne risulta, a metà strada fra saggistica e narrativa, contribuisce notevolmente a stemperare le difficoltà di approccio di chi non ama i testi accademici, i loro tempi e il loro stile. Cronologicamente, dopo aver “messo in guardia” i lettori con Introduzione e Prologo, il racconto prende le mosse dagli albori del tifo. Da quegli anni Cinquanta e Sessanta in cui l’epopea degli ultras era ancora ben lungi a venire ma contestualizzare con precisione il piccolo mondo sportivo locale, le sue abitudini, le sue attitudini, il lignaggio sociale degli attori, aiuta a capire da dove viene ciò che sarebbe stato, di lì a poco, pronto ad esplodere come nuovo fenomeno sociale e/o di costume.

Maggiore il livello di dettaglio degli anni Settanta dove varie esperienze di libera associazione sugli spalti gettano il seme dei gruppi ultras che vedono poi la luce nel decennio successivo. Sono questi anni molto interessanti, tanto quanto quelli seguenti, specie perché vissuti in una sorta di incanto passionale in cui – fuor da ogni intento moralizzante – il supporto alla squadra e la vita di comunità attorno alla stessa, non erano appesantiti da tutto quel castello di sovrastrutture mentali che poi il mondo del tifo (e anche quello del calcio) ha imbastito nelle epoche più recenti.

Numerose in tal senso le digressioni e le riflessioni in cui vengono per un attimo accantonati gli intenti principali per soffermarsi su temi quali leadership, ricambio generazionale, violenza e tutto quel che è il modus operandi in quella che viene mitologicamente ritenuta come una sorta di età dell’oro. Anche se poi, a ben vedere, si scopre – tanto per dirne una – che in quegli anni non passava nemmeno lontanamente per la testa a nessuno di sciogliere un gruppo dopo aver perso uno striscione. Il più delle volte poi in situazioni a dir poco rocambolesche e tutt’altro che cavalleresche. Semplicemente lo si rifaceva pari pari e lo si portava di nuovo allo stadio nella partita successiva. Guardare però quel passato con le lenti deformanti del metro morale attuale, ammesso e non concesso che ci possa essere una morale univoca in un mondo multiforme e borderline come quello ultras, è un esercizio discutibile. Ma a quanto pare il calabrone non lo sa e continua a volare, o per meglio dire non lo sanno i teoretici che continuano a spiegarci cosa si dovrebbe fare o non fare, dire o non dire sui gradoni di una Curva secondo i preziosi insegnamenti dei nostri venerabili padri fondatori a cui in realtà non gliene fregava niente, se non ritagliarsi uno spazio di anarchica libertà e provocazione punk istintuale spesso pure contraddittorie.

Bello in tal senso notare – così come bello sarebbe farlo notare a chi attribuisce agli ultras ogni male del calcio – come molte delle rivalità tutt’oggi più sentite, siano nate in periodi di vuoto organizzativo in termini di tifo. Contribuiva il campanilismo, contribuiva la rivalità sportiva, contribuiva quella territorialità spicciola per la quale, in quegli anni, qualsiasi “forestiero” semplicemente non era il benvenuto. E se aveva avuto la malsana idea di recarsi in trasferta in quei tempi ruvidi e senza scorta, era meglio se mostrava da subito il buonsenso di accettare i non tanto miti consigli degli autoctoni, evitando di cantare, esultare e esporre eventuali striscioni prima che glieli rubassero. Non era un caso se agli albori fossero davvero poche le tifoserie aduse ad andare in trasferta, specie sul lungo percorso o in casa di qualcuno con cui avevano qualche debito in sospeso. Leggere, alla fine di ogni stagione, il computo delle tifoserie presentatesi a Foggia, potrebbe riscrivere le convinzioni e le gerarchie personali di tanti lettori.

Tanti altri i luoghi comuni destrutturati sia per chi legge da interno che da esterno al mondo ivi raccontato. Capillare la ricostruzione dell’apporto della provincia, dei primi approcci amichevoli, delle simpatie appena abbozzate e naufragate. Più di tutto risulta azzeccata la scelta di scandire la tempistica del racconto non solo con la cronologia dei risultati sportivi e delle gesta dei tifosi, ma anche legando il tutto con i piccoli e grandi eventi, locali e nazionali, che hanno inciso sull’immaginario collettivo: le hit che dominavano la scena musicale, la caduta del muro di Berlino, i concerti memorabili in città, la prima puntata su Rai2 di “Quelli della Notte” presentata dal foggiano doc Renzo Arbore o il terremoto in Irpinia e la sua spaventosa eco giunta fino a Foggia. In un periodo storico in cui le notizie camminavano sulle proprie gambe molto più lentamente di come succede oggi col web, rientrare ignari in città in piena notte, dopo la memorabile trasferta a San Siro, impreziosita dal pareggio dei Satanelli, aveva illuso i tifosi di star per ricevere dai concittadini l’alloro che spetta agli eroi, invece più tristemente si trattava di umana paura. Vi avranno già fatto direttamente o indirettamente la tipica domanda che accompagna i grandi avvenimenti mondiali, “Cosa stavi facendo quando…?” Questo libro racconta in piccolo cosa facevano Foggia e il resto del mondo mentre i suoi ultras nascevano e diventavano grandi.

C’è chiaramente anche tanto calcio tra le righe, quello giocato dai suoi interpreti più o meno famosi, le vicende dietro le quinte, i fallimenti sportivi ed economici, gli avversari più ostici, i presidenti costretti a far le nozze con i fichi secchi e quelli animati da sogni di una grandezza megalomane, finendo poi agli allenatori odiati o amati convergendo infine immancabilmente sulla figura catalizzatrice di Zdenek Zeman. Non è (forse?) un caso se le storie di questo libro si interrompano bruscamente proprio sul più bello. Quando il Foggia ritorna in Serie A ed ha inizio quella abusata narrazione di “Zemanlandia” che ha reso pop il tecnico boemo e con lui i protagonisti di quelle storiche domeniche. La sovraesposizione mediatica rende accessibili e noti al grande pubblico anche i particolari più infinitesimali ma spesso finisce per banalizzarli in un ritratto macchiettistico. Tutti credono di sapere quella parte di storia e forse, almeno per ora, è superfluo raccontarla. O più semplicemente questo momento storico rappresenta un vero e proprio spartiacque di cui Berlingieri e Mariella ci racconteranno, prima o poi, anche quello che c’è stato dopo. Molto bello il modo in cui nelle “Conclusioni” rovesciano il classico paradigma: di solito siamo abituati a sentire che finché ci sono la squadra e la città da difendere e rappresentare, gli ultras ci saranno sempre; chiosando il racconto di questa storia invece, gli autori sostengono che finché ci saranno gli ultras ci sarà una città e con essi ancora un’altra storia da scrivere e da raccontare.

Aspettiamo di leggerla…

Matteo Falcone