“La Roma ha ritrovato il suo pubblico”. Questo si può leggere su diverse testate e in diversi siti la mattina dopo il disastroso ritorno della gara con il Porto. A spulciare questi manoscritti sembra che, di colpo, l’Olimpico sia tornato a brillare di luce propria, superando di gran lunga il caldo balcanico del Marakana di Belgrado e la furia roboante degli impianti greci, laddove spesso il fattore campo è un elemento fondamentale al fine del risultato. Immaginate una marea di gente che canta avvelenata per 90′, soprattutto dopo il raddoppio del Porto, che sancisce virtualmente l’eliminazione dalla Champions League dei giallorossi. Immaginate l’attaccamento viscerale alla maglia e ai propri colori che crea uns selva di mani nel settore popolare e fomenta tutti gli altri spettatori dello stadio, con bandiere sventolanti, a formare una muraglia di giallo ocra e rosso pompeiano.

Ecco: cancellate immediatamente tutto ciò. E se non avessi vissuto queste cose in prima persona, proprio all’Olimpico, ma anche in altri palcoscenici italiani e internazionali, non faticherei comunque a rimanere alquanto imbarazzato di fronte al pubblico 2.0 di Viale dei Gladiatori. In silenzio per quasi tutto il match, sovrastato letteralmente dai neanche 200 portoghesi presenti (a cui va riconosciuta una bella prestazione, con tanto di torce accese al gol e goffa discesa della polizia per redarguirli), impegnato a fischiare arbitro e giocatori all’intervallo, a lamentarsi continuamente con il direttore di gara e, infine, cosa più avvilente, a lasciare le gradinate dopo il raddoppio dei lusitani. Tutti, “Curva Sud” compresa. E le virgolette non sono casuali: salvo il muretto occupato dai Fedayn (anche ieri in silenzio salvo due cori, contro la polizia e per i diffidati) il settore altro non è che un’accozzaglia di turisti, tifosi che lo stadio lo vedono una volta l’anno (e solo in partite di cartello) e gente capace quasi esclusivamente di esaltarsi nei momenti positivi e contestare nei momenti di difficoltà (tutto troppo facile, ma nell’era dell’usa e getta questo è il consumatore che è stato creato). L’esatto opposto di quel che ha reso celebre il tifo giallorosso.

Ora, ho sempre sostenuto che gli spalti debbano essere frequentati da persone di ogni genere ed estrazione sociale, e non credo che Tizio, frequentatore della Tribuna Tevere, sia meno tifoso di Caio frequentatore della Sud. Sono soltanto due modi diversi di vivere la propria passione. Ed entrambi vanno rispettati e tutelati. Tuttavia, se viene a mancare l’elemento più caloroso, è un dato di fatto, assistiamo a uno spettacolo mozzato, artefatto, muto e plastificato.

Davvero ci vogliamo esaltare e vogliamomagnificare due cori durati 40 secondi nel finale di gara? E il silenzio di tomba durante tutta la partita, con alcuni soprassalti in stile Wimbledon?

Gli smartphone che scattano foto all’inizio e durante la partita, le gradinate prive di colori, i cori potenti e scanditi con veemenza solo e soltanto per giocatori che oggi sono qua e domani chissà. Questo è diventato il tifo della Roma nel 2016? La totale spersonalizzazione di un ambiente festoso e variegato, a chi conviene? A chi piace? Sarebbe facile fare illazioni e trovare risposte scontate. Non lo faccio, ma ognuno può trarre le proprie conclusioni. Di certo non si deve e non si può mistificare la realtà. I radical chic che ci parlano di bon ton, di persone perbene, di educazione da stadio e giustificano tutti i provvedimenti attuati nei confronti dei tifosi in questi anni, sono gli stessi che insultano la curva perché oggi non canta, non si fa sentire e non dà spettacolo. Ma come potrebbe? “La Roma non si discute, si ama”, c’era scritto sulle sciarpe di qualche anno fa. Sembra un ricordo lontano, vago e quasi fastidioso. Il pubblico romanista è profondamente diviso, a prescindere dalle barriere, ed è una divisione che non fa bene a nessuno. Perché le battaglie si vincono insieme e, dirò pure una banalità, l’unione fa la forza.

Nessuno si offenda: di fronte al Roma-Porto di ieri, a livello di ambiente, mi tengo centomila volte i miei Civitanovese-Maceratese, Parma-Sambenedettese, Casertana-Messina e via dicendo. Il “Che sarà sarà” tentato dal Distinto lato Monte Mario a fine gara, se da una parte racchiude almeno una piccola reazione nei confronti di chi velocemente corre verso casa, dall’altra è una malinconica parodia di un ambiente che, almeno per ora, non c’è più. Un richiamo nostalgico a quel vecchio Roma-Bayern Monaco dei tempi che furono, ma anche all’ultimo Roma-Bayern, largamente vinto dai bavaresi ma con una Sud a tirare le redini di un pubblico più che deluso. È chiaro che avere tifosi commercialisti, in grado di conteggiare fidejussioni, fare analisi tecniche sopraffine ma non assolvere al compito del sostegno vocale e di presenza (“tifare è un dovere di tutti, riuscirci è un onore di pochi”) equivale, almeno per noi, alla morte definitiva del pallone. Poi si possono conquistare anche finali di Champions e montagne di trofei, ma se lo si fa senza anima… a chi interessa?

Certamente è ora di metterci una mano sulla coscienza e capire che genere di calcio vogliamo. Almeno ad alti livelli. Se ci sta bene la propaganda che descrive “pieno” uno stadio con 30.000 spettatori a fronte di una capienza di 65.000 allora chiudiamo baracca e burattini e accettiamo tutto senza batter ciglio. Se invece, anche a livello di società sportive, vogliamo far sì che calcio moderno (ma poi cosa è il calcio moderno? Pure il calcio del 1982 era “moderno” per chi lo aveva seguito negli anni cinquanta, eppure richiamava tantissimi spettatori) non sia per forza sinonimo di sopraffazione nei confronti del tifo passionale e diaspora dei supporter più caldi e folkloristici, dobbiamo essere obiettivi e smetterla di dire mezze verità. Le prime barriere da abbattere sono quelle mentali. In tutte le componenti di questo pallone ridotto a cancrena.

Testo Simone Meloni

Foto Cinzia Lmr