01Ammetto: del Sankt Pauli ho una sciarpa di raso bianco. Al muro, accanto all’Ikurrina. E pure il biglietto di una trasferta mai fatta. A Francoforte sul Meno. Non posso quindi – in coscienza – sostenere la tesi di un’assoluta indifferenza “storica” nei confronti della compagine amburghese e della sua storia. Ma oggi – al netto delle occupazioni sulla Hafenstrasse, dell’epopea e del riscatto degli ultimi, degli emarginati, dei lavoratori del porto, dei punk, degli autonomi, delle jolly roger – e a margine dell’ennesima presentazione dell’ennesimo libro agiografico sull’argomento, fuori dai denti, va detto: non se ne può più! E non certo e non tanto per loro, quanto per noi. Per quel che vediamo quando decidiamo di osservare gli esterni; e per quel che riportiamo a noi, al nostro immaginario di strada e di militanza, sulla strada del ritorno. Perché – e figuriamoci! – non ho nulla da dire sull’ottantenne che settimanalmente si reca al Millerntor e lo popola della propria infantile passione immutabile. È nato lì. E, come lui, migliaia di altri abitanti di quel quartiere a luci rosse. I tifosi sono ovunque simili. Ed ovunque meritevoli di profondissimo rispetto. Le tante sofferenze, i dolori acuti, e le rarissime soddisfazioni d’accatto – tranne casi eccezionali e rarissimi – sono, per milioni di uomini e donne, lo stigma di una fede bruciante ed inspiegabile. Di una devozione che, al pari di un male insondabile, alla prima manifestazione pubblica è già, di fatto, irreversibile. Vale dappertutto. Nella metropoli e nel piccolo centro. Il “problema” è altrove. Diciamocelo. Il Sankt Pauli, come oasi e rifugio, come proiezione e come feticcio, ha rotto le scatole. Giacché, lungi dal rappresentare un’alternativa in carne ed ossa alla nostra empasse partecipativa, dimostra la nostra assoluta sconfitta. Se il Sankt Pauli, come modello sociale, vince, noi esultiamo. Dimostrando al contempo che sì, si può fare. E che sì, si può fare altrove. Che non è arte nostra. Se il Sankt Pauli, come modello sociale, perde, o si corrompe, o si contamina, allora non possiamo fare altro che, fatalisticamente, alzare le braccia al cielo ed ululare alla luna. E, come le donne della Algeri di Pontecorvo, chiosare che allora è impossibile ovunque. Nella nostra venerazione a distanza, nel nostro turismo sentimentale e romantico, c’è per intera l’apologia della nostra impotenza. Il culto della sconfitta. Non è raro, difatti, imbattersi in compagni e compagne che non disdegnano di definirsi “ultras”, che nella squadra tedesca condensano il sunto estremo della propria frustrazione. Il Sankt Pauli, molto più spesso di quanto si creda, diventa la camera di compensazione di ciò che si ritiene impossibile a casa propria. Compagni e compagne ai margini dei gradoni delle proprie piazze “nere”, isolati e senza gruppi, senza radicamento o retaggio, che riversano nell’isola felice – più o meno afferente alla realtà – l’ideale di quel che vorrebbero si materializzasse – magari, di colpo – anche “da noi”. Così, quel lontano quartiere, diventa l’Unione Sovietica nel sogno dei comunisti italiani degli anni Cinquanta. E i ragazzi di Sankt Pauli, fuori e dentro il rettangolo di gioco, quello che per i popoli del Medioriente sono, come diceva Kassir, i Palestinesi. Combattenti senza paura di una guerra che, noi per primi, non osiamo combattere. E non certo perché ci manchino i motivi. Parliamoci chiaro: gli “osanna!” per il Sankt Pauli, come quelli per il “rosso” Livorno qualche anno fa, altro non sono se non il maldestro tentativo di espiare al peccato originale delle sinistre extra-parlamentari: l’aver perso le strade, l’esser stati estromessi dai quartieri, l’aver giocato – di conseguenza – all’intellighenzia che snobbava il calcio come “oppio dei popoli”. Solo vent’anni fa un gruppo musicale molto seguito in certi ambienti cantava delle domeniche allo stadio dove si andava a sfogare la frustrazioni accumulate in settimana ad obbedire. In un pezzo in cui si parlava dell’auspicato rigurgito antifascista. Ironico. Visto che negli stessi anni, senza alcun appoggio della politica militante, naufragava il tentativo delle destre di egemonizzare le curve italiane, trasformandole in bacino di consenso per audaci tentativi di ribalta. Naufragava. Perché le curve hanno degli anticorpi fabbricati in proprio. E su certi tentativi di strumentalizzazione, sono state ben più pronte e sveglie rispetto ai movimenti sociali. Che si limitavano a sbraitare sentenze e a scrollare le spalle. Con il passar degli anni, la new wave dell’antagonismo, nel suo veleggiare tra corsi e ricorsi, ha riconsiderato la questione. E munificamente ha concesso una green card di legittimità anche ai militanti che in curva ci vanno. O, peggio ancora, a quelli che non hanno mai smesso di andarci. Ma giacché le contraddizioni – che dovrebbero rappresentare il nostro pane quotidiano – per la loro stessa natura di viscida sporcizia, ci danno la nausea, allora si cercano modelli preconfezionati. Giacché il lavoro politico, l’aggregazione, l’immergere le braccia nella fanghiglia, ci turba, allora rivolgiamo i nostri cuori a ciò che è scevro da impurità. La squadra di compagni, piena di attività sociali e contenuti extra. Il Davide anarchico che sfida il Golia del calcio dei padroni. E giù disamine sui sistemi democratici della gestione del club, sui finanziamenti alle cause internazionali, sul ruolo delle donne, etc. Belle cose. Che, ahimé, non tengono conto di due fattori difficilmente aggirabili. Che il Sankt Pauli gioca al pallone tra i professionisti (e che il calcio è uno sport agonistico) e che il legame tra un squadra e la sua tifoseria non è – come in tutte le storie d’amore – elemento razionale. In sostanza: il Sankt Pauli è nel Capitalismo del pallone come tutte le altre squadre di Germania, d’Europa e del mondo. Che la teoria delle piccole zone liberate dal Capitale è fallita tra gli anni Ottanta e i Novanta. Che deve giocare e vincere, e per poter vincere deve investire e competere. E che, per un tifoso vero, per un innamorato autentico, tutto questo non ha alcuna importanza. Anzi. Risibili sono quei compagni che, senza aver mai messo piede in uno stadio di calcio, parlano dell’epoca della purezza rivoluzionaria come di un paradiso perduto. O che, peggio, si mostrano affranti da certe degenerate scelte di merchandising del club con la stessa foga tragica con cui parlano della fine del teatro di strada. Compagni, voi di calcio, e di stadi, non capite un bel nulla! Lasciatevi servire. Per voi è encomiabile, quasi commovente, che dei tremila tifosi nel settore ospiti dello stadio di Colonia, solo cinquecento provenissero da Amburgo. E che tutti gli altri fossero “compagni” di Colonia. A me dà semplicemente il voltastomaco. I “compagni” meriterebbero la messa sotto accusa per alto tradimento, altroché. E non venitemi a dire che “nostra patria è il mondo intero” o che la curva del Colonia è piena di fasci. Perché possono essere vere entrambe le asserzioni, ma se si decide di seguire il calcio, non lo si fa con lo spirito di un’educanda boriosa e supponente in un bordello. Regola numero uno: non si sceglie per chi tifare; tu non scegli un bel niente: è la squadra che viene da te, sotto le mentite spoglie di un amico di banco, di un genitore, di un calzolaio che sta leggendo il giornale in bottega. Regola numero due: quando hai visto la tua squadra una volta, il resto s’eclissa, naufraga, scompare, ingoiato dall’oblio. Non c’è raziocinio, non c’è logica, non c’è calcolo. Esiste solo lei. E la tua curva, la tua gente. Regola numero tre: non si tradisce ciò che si ama. Non si tradisce ciò che si è amato. Non c’è motivo al mondo – e la politica è tra questi – che possa giustificare la tua diserzione o, peggio ancora, il cambio di campo. Ma i compagni sono dei sognatori incalliti. Ti guardano e ti dicono – anche quando affermano di capirti, dicono – che loro coi fasci non ci dividono neppure l’aria. Anime belle. Che non frequentano cinema, sale da tè, treni, supermercati, riunioni di condominio. Che ignorano che la “politica” in curva è alchimia di socialità e non martellamento dogmatico. Che sono costretti a farsi agiografi di altri mondi possibili, dove tutto fila liscio e la sera si va a letto puliti. Ma che, soprattutto, non hanno compreso che la fuga non è la soluzione. Non sto qui a sindacare i vissuti. E ci mancherebbe altro! Ma l’idea stessa che dinanzi alla complessità, i compagni inforchino la porta e vadano altrove, a ricercare semplificazioni e riduzioni a immagine e somiglianza della loro pigra passione, mi mette i brividi. È come dire che un giorno troveremo, a furia di abbandonare terre popolate, un isolotto incontaminato sul quale issare la bandiera della rivoluzione. Senza combattere. Io nella curva di un’altra squadra ci sono stato e, se mi capiterà, ci andrò ancora. Da turista. Ad ascoltare i loro cori, a valutare la disposizione dei gruppi, il modo in cui è strutturata. Ma non ho mai caricato, e mai caricherò, altre esperienze eterodosse del surrogato del valore sacrale che attribuisco alla mia. Nessuna squadra di quartiere che milita in terza categoria, nessuna formazione di calcio popolare, nessun club “liberato”, potranno mai sostituire la mia. E se qualcuno mi accusasse, tra i compagni, di essere una sorta di oltranzista legato a valori feudali, io, da compagno, risponderei che io, semplicemente, non sono amante delle semplificazioni e delle ritirate. È questione di istinto. E di retaggio. Ma ciò non toglie che resto convinto che l’intero immaginario delle sinistre debba porsi qualche problema d’autrappresentazione.

Francesco Berlingieri.