Quello che spesso ancora mi sorprende girando l’Italia è l’aspetto umano di determinate realtà. La misura d’uomo che gran parte della provincia mantiene e il suo modo di vivere lo stadio, rimasto cristallizzato a qualche anno fa. Direi una falsità affermando che questo Jesina-Civitanovese è stato un semplice “aperitivo” prima della sfida in notturna tra Ancona e Pescara. Perché il pomeriggio del Carotti ha avuto la stessa valenza del derby adriatico. Anzi, nel suo “piccolo” è riuscito a farmi ancor più alienare per qualche ora, ponendomi di fronte gente vera, con passione radicata malgrado infime categorie e un clima vibrante, adatto alla contrapposizione di due tifoserie divise da una storica rivalità ma idealmente unite da una tradizione curvaiola importante. Vorrei introdurre il racconto sottolineando quanto questo mondo – spesso disastrato e sicuramente pieno zeppo di difetti e contraddizioni – riesca a far incontrare ogni tipo di gente esistente sulla faccia della Terra. Un qualcosa in grado di arricchire quando avviene tra persone intelligenti, che sanno superare determinati steccati e confrontarsi come se si conoscessero da una vita. Parliamo una lingua comune, da Nord a Sud, e forse qualcuno non se ne rende conto, ma il fil rouge in grado di unire generazioni, ragazzi e ragazze, è unico e difficilmente riscontrabile in altri campi della società. Al cospetto di pagine nere, c’è un aspetto solidale e di fratellanza che tiene vivo anche chi si trova sul lastrico della propria vita, chi per suoi errori o per la spietatezza della società, si trova a un millimetro dal ciglio del burrone. Pronto a esser spinto giù.

Guardo con diffidenza e quasi un sorriso ironico chi non si concede il bello di una chiacchierata o anche solo dell’ascoltare l’esperienza di vita del prossimo, perché non conforme al suo status sociale o alla sua forma mentis. Guardo con ironica compassione chi rinuncia all’idea di poter crescere interiormente anche guardando negli occhi chi ne ha tante da raccontare e chi, grazie allo stadio e alla sua gente, oggi può permettersi di sentirsi parte ancora di qualcosa. Non abbiamo il piacere di frequentare un mondo avvezzo al perdono (quando possibile e necessario, ovviamente) o al donare seconde possibilità, quindi meglio tenerci stretti alcuni passaggi e alcuni valori fondamentali che la curva può e deve perorare e trasmettere alle generazioni future. Io di queste realtà cosiddette provinciali sono follemente innamorato per il loro senso di comunità, che anche vedendole all’opera la domenica – nel pre partita o subito dopo il match – si percepisce alla grande. E dal quale si capisce, nella fattispecie jesina, anche perché si riesca a fare aggregazione malgrado la totale mancanza di soddisfazioni sportive che ormai si protrae da innumerevoli stagioni.

Arrivo a Jesi con una buona dose di sonno inevaso, causa nottata passata per le strade del centro di Bari. Eppure, come sovente mi capita, la stanchezza si fa subito da parte quando entrando in città comincio a respirare il clima partita. Su un cavalcavia gli ultras jesini hanno appeso uno striscione di “benvenuto” per quelli civitanovesi: roba retrò, sempre ben gradita ai nostri occhi. Immediatamente mi viene da fare una riflessione: striscioni o messaggi ironici, talvolta beceri, vengono condannati e criticati da una buona parte del baraccone mediatico e da tutto lo stuolo di benpensanti che – malgrado non abbia mai messo piede in uno stadio – si diverte a dar fiato alle proprie corde vocali. Paradossalmente, invece, chi vi trova stimolo e forse ne desidera sempre la presenza, sono proprio i diretti interessati. In questo caso i supporter ospiti. Eppure, dopo oltre mezzo secolo di sottocultura ultras, determinate dinamiche dovrebbero essere abbastanza chiare: entrare in “territorio” avversario e trovare un qualsiasi genere di comitato d’accoglienza è solo un “piacere” per chi lo riceve, nonché parte integrante del confronto. Capisco, tuttavia, che il mio è fiato sprecato: molto meglio riempire pagine di talune corbellerie che faticare a trovare un argomento da approfondire in determinate zone d’Italia, forse sin troppo tranquille per gli “artisti” con penna e calamaio tra le mani!

Torno a scattare in una partita dei leoncelli a otto anni di distanza dall’ultima volta (Jesina-Fano 2015), con i padroni di casa che all’epoca militavano in Serie D. Un torneo che i biancorossi hanno “frequentato” per dieci anni consecutivi, tra il 2010 e il 2020, ma in cui non sono mai riusciti ad andare oltre buoni campionati di metà classifica. Un ristagnare, seguito dalla retrocessione in Eccellenza e dalla sconfitta ai playoff regionali patita l’anno scorso per mano dell’Atletico Ascoli, che ovviamente ha rischiato di fiaccare una piazza che negli anni si è sempre contraddistinta per seguito, continuità e attaccamento. Magari senza effettuare trasferte oceaniche e senza mettere i numeri al centro delle proprie priorità, ma militando senza fronzoli. Con costanza (virtù che spesso si mette in secondo piano rispetto ai numeri). Io una pezza e un manipolo al seguito della Jesina li ricordo bene o male sempre. Quello che mi colpisce è constatare l’ottimo mix tra giovani e vecchi nella curva biancorossa, cosa per nulla scontata se si pensa a una realtà – come detto – avara di gioie sportive, dove pertanto il ricambio generazionale attualmente può essere affidato solo ed esclusivamente al tramandare la fede curvaiola.

Jesi – centro di quarantamila abitanti posto a una trentina di chilometri dal capoluogo – vanta sicuramente una tradizione calcistica ben radicata. In questo stadio negli anni ottanta i leoncelli hanno disputato ben nove campionati di C2 e uno di C1, conquistato con una leggendaria vittoria sul campo del Cattolica, al termine della stagione 1983/1984. Una promozione che diede modo ai marchigiani di misurarsi con piazze del calibro di Modena, Rimini, Spal, Vicenza, Reggiana, Livorno, Ancona e Brescia. La pagina più nera di una stagione che vide lo stadio sempre pieno e regalò agli sportivi jesini la soddisfazione di vincere al Dorico di Ancona con un beffardo 0-1, si consumò proprio contro le Rondinelle, che già promosse in B nel match del Rigamonti non si fecero superare, facendo terminare la Jesina a pari punti con la Spal, ma vedendo la prima retrocedere per gli scontri diretti. Resterà l’amaro in bocca per l’epilogo di quello che fino a oggi è il punto più alto della storia biancorossa. Una decade che permise la formazione di una vera e propria leggenda attorno a quel sodalizio, nonché il cementarsi del suo seguito. Gli anni in cui a fungere da avamposto ultras erano i Rangers, gruppo che a queste latitudini ha sicuramente fatto storia e portato un modo più organizzato di sostenere i propri colori.

Oggi gli anni d’oro sono lontani. Così come lo sono per i dirimpettai civitanovesi, che ormai da anni navigano nelle acque del dilettantismo regionale e faticano a rimettere la testa fuori. Complessivamente, se si pensa anche alla presenza in questo girone della Maceratese, si capisce quanto il calcio italiano sia terribilmente in difficoltà nel mantenere attivi e in buona forma i suoi infiniti club storici, che negli anni sono stati capaci di donar lustro alle categorie inferiori. Sia in termini di spettacolo del tifo che di crescita tecnica. Non è un caso che l’era in cui dalla Serie C e dalla D venivano progressivamente sfornati talenti in grado di evidenziarsi poi anche in maglia azzurra, è un lontano ricordo. Quantomeno, va detto, oggi di quel calcio ormai destinato agli archivi e agli amarcord, rivedremo il furore tecnico, la rabbia, l’agonismo e, perché no, il poco controllo garantito dal direttore di gara (sic!).

Al Carotti arriva una Civitanovese prima in classifica, seguita dal suo pubblico in ottimo numero. Le misure di sicurezza sono ingenti tanto che nella notte le luci dello stadio sono rimaste accese per far sì che nessuno vi si introducesse. Non si sa mai, il pericolo di trovar piazzato un ordigno o un pacco bomba è sempre dietro l’angolo! Se invece la paura fosse che qualcuno si potesse cimentare nell’usanza italiana (molto anni ottanta) di gettare colla o pesce marcio… posso solo ribadire quanto detto poc’anzi: il problema è più dei censori che di chi riceve queste accoglienze. Non voglio giustificare comportamenti magari sopra le righe, ma neanche voglio ipocritamente negare che quel genere di sfottò mi abbia sempre strappato un sorriso. Per me lo stadio non può essere luogo deputato al politicamente corretto o alla presa in giro bonaria. Ci sono delle regole tra gruppi, che non possono collimare con quelle moraliste e bacchettone della quotidianità “moderna”. Pena omologarsi a chi ti giudica violento per una torcia accesa!

In quello Jesina-Fano di otto anni fa, nel settore casalingo campeggiava imponente lo striscione Ultras Jesi, mentre oggi i padroni di casa si sistemano dietro diverse pezze: Eppure il vento soffia ancora, Vecchia Macchia, Vecchi Lions e Gruppo Blando. Quando manca qualche minuto al fischio d’inizio il contingente biancorosso si compatta, cominciando a effettuare i primi cori di sostegno alla squadra, in attesa che anche gli ospiti entrino per scambiare le prime provocazioni. A tal proposito, l’ingresso dei civitanovesi è pesantemente rallentato dalle procedure d’afflusso della polizia: un funzionario con la telecamera riprende uno a uno i tifosi all’ingresso, mentre gli altri si occupano di contrastare e vietare l’ingresso di strumenti pericolosissimi e a dir poco fuori luogo in uno stadio: aste lunghe e bandieroni. Quando il cittadino medio protesta per la mancata sicurezza, quando i nostro sommi politici si sbracciano in aula su chi propone misure più stringenti in fatto di ordine pubblico e soprattutto quando alla ribalta dei media salgono quei mostri dei tifosi, bisognerebbe portare come esempio la vera lotta al crimine impersonificata quest’oggi dai solerti addetti delle forze dell’ordine al settore ospiti del Carotti di Jesi. È anche grazie a loro se famiglie e bambini hanno potuto vedere la partita senza temere la presenza dei bandieroni dei ragazzi di Civitanova. Chapeau, come direbbe un noto pensatore barese!

La curva di casa saluta l’ingresso delle squadre con lo striscione “Vinci per noi”, una piccola fumogenata e una sbandierata. Elementi classici, semplici, profondamente attinenti allo stile italiano, che i biancorossi mostrano di seguire menadito. Ben forgiati dai lanciacori, che aprono le danze chiamando in causa i dirimpettai. I quali, ovviamente, non si fanno attendere nella risposta. Sistemati dietro la pezza di Piazza Conchiglia, gli adriatici fanno quadrato nella zona centrale di un settore tutt’altro che agevole per coinvolgere i presenti, a causa della sua conformazione in lunghezza anziché in altezza. Da qualche anno questi ragazzi hanno riprovato a ritirar su le sorti di una tifoseria che dopo lo scioglimento delle Brigate, la sospensione della Curva Nord e i fallimenti sportivi della squadra, ha passato un momento interlocutorio, faticando a tornare sui suoi standard. Parliamo di una delle piazze storiche delle Marche, dove l’humus per fare aggregazione ultras non è mai mancato e dove, sicuramente, se le cose sul campo andranno per il meglio si ricreeranno condizioni per aiutare l’imperterrita volontà di chi attualmente tiene in mano le redini del tifo organizzato. Complessivamente la performance rossoblu è buona, con diverse manate, voce per tutti i novanta minuti e una discreta sciarpata eseguita nel secondo tempo.

Giudizio più che positivo anche per gli jesini. Bello vedere giovani e vecchi spronarsi a vicenda per cantare e cercare di gettare il cuore oltre l’ostacolo al fine di ottenere un successo che sarebbe d’oro. Diverse torce e fumogeni accesi durante l’incontro ed esultanza al gol vittoria siglato su rigore al novantesimo, ovviamente scalmanata e prolungata. A proposito, nota di merito per la partita. Come accennavo poc’anzi, gara contraddistinta dalle tante botte in campo, dai cartellini rossi (alla fine saranno ben sei: due per parte durante l’incontro, altri due a partita finita nei confronti di due calciatori in panchina) e da una tensione – davvero mal gestita dall’arbitro – che dal primo all’ultimo minuto si è tagliata con il coltello. Il mio pensiero è andato a tutti quei cronisti (sovente di roseo colore) impegnati a promuovere il bon-ton in campo e il galateo subito dopo il fischio finale. Godetevi questo: espulsi, bestemmie, esultanze a dir poco indisciplinate, mani addosso e insulti tra le tifoserie. E se qualcuno avesse da ridire si andasse a vedere la Ryder Cup!

Con questa vittoria la Jesina resta in scia alla zona playoff, mentre per la Civitanovese è il primo stop esterno della stagione. Ma al di là di tabellini e commenti calcistici, è da sottolineare la veracità di un clima da derby a tutti gli effetti. Tra due curve vive, custodi di un’identità chiara e profonda, che rende sicuramente onore al tifo organizzato della provincia italiana. Vero e proprio punto di riferimento – nonché terreno su cui si regge l’intero mondo del tifo a mio avviso – per appassionati e cultori. A me non resta altro che sistemare l’attrezzatura, godermi qualche minuto di tepore negli spogliatoi, osservando foto storiche e cimeli, e poi andarmene verso la stazione. Direzione Ancona. Fa freddo e la notte sta calando sui colli jesini, quelli dove il verdicchio viene prodotto per poi scorrere a litri sulle nostre tavole. Questo è l’ultimo quadro “godereccio” del mio pomeriggio. La stanchezza mi torna prepotentemente su e mi lancia tra le braccia di Morfeo nei quaranta minuti che mi separano dal capoluogo. Giusto il tempo per ricaricare almeno una tacchetta delle mie batterie e permettermi di assistere al meglio al confronto tra dorici e abruzzesi.

Chissà, un giorno poi avrò anche modo di approfondire quanto la storia delle società marchigiane sia connessa a quella di un territorio che tra i primi nel nostro paese è stato colonizzato e urbanizzato dai popoli italici. Ci penso nel destare l’ultimo sguardo al leone incastonato nello stemma comunale di Jesi. Effige che richiama alla leggendaria fondazione della città da parte di Esio, re dei pelasgi, il quale aveva come insegna proprio il leone rampante. Lo stesso stemma è adottato anche dai comuni dei Castelli di Jesi (sì, esatto, quelli dove principalmente il verdicchio viene prodotto…!), un tempo soggetti alla signoria di Jesi. E per un romano il fatto che in un comune ci siano dei Castelli – in cui si imbottiglia vino – non può suonare indifferente…

Simone Meloni