“Stupido Flanders!” Non me ne vogliano i tifosi dello Stadium, anzi gli spettatori, ma durante i 90 minuti ho provato lo stesso fastidio che spesso Homer Simpson nutre nei confronti del suo vicino e della sua famiglia perfetta: mai una parola scomposta, sempre tutto lineare e prevedibile, mai una nota stonata, insomma tutto così tremendamente perfetto da risultare fastidioso. Per chi come me è cresciuto con il mito della “Terrace Culture” lo spettacolo offerto, perché di spettacolo dobbiamo parlare, regala un pizzico di rabbia e delusione miste ad uno strano senso di disorientamento: per la prima volta da quando frequento gli stadi ho creduto di essere nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Sì, lo Stadium non mi sembra quel posto popolare e sporco che dovrebbe invece essere e, soprattutto, il 15 agosto dovrei essere su qualche spiaggia, fingendo, giornale alla mano, di essere un esperto mister di calcio che, forte delle sue idee, critica la campagna acquisti. Il posto sbagliato al momento sbagliato, appunto. 

Eppure, le premesse c’erano tutte: i Drughi che arrivano in corteo e i Viking che sono lì ai cancelli ad aspettare. Al movimento ultras personalmente non riconosco il primato del tifo organizzato. Già negli anni ’60 i pionieri del tifo rappresentavano, almeno nelle partite casalinghe, forme embrionali seppur disordinate di sostegno; al mondo ultras riconosco però il pregio di aver dato forma e sostanza concreta alla passione calcistica. Al mondo ultras, ancora, il merito di aver regalato a tanti ragazzi la possibilità di “viaggiare” nel senso estensivo del termine, andando oltre l’aspetto prettamente sportivo, ridando un senso a valori quali condivisione, amicizia e lealtà.

Tutto questo e quant’altro connesso, alla Juve non esiste più e il processo di normalizzazione, da una parte, e la necessità di spettacolarizzazione dall’altra, hanno ovviamente finito per riguardare anche il tifo. Solo quello degli ultras però, cosa che da un certo punto di vista “legalistico” si può ritenere persino comprensibile ma per com’è stata attuata, ha finito per mortificare anche il corpo sano del tifo, come o forse persino più di quel “cancro” che si voleva estirpare. Nella fattispecie gli fa comunque onore che siano stati loro in prima persona a farlo, in una società della delega perenne come la nostra, dove tutto viene estorto con tale giustificazione e poi quando c’è del lavoro sporco da fare delegano la delega: “i tifosi devono isolare la parte malata del tifo”. Che poi tante volte anche il concetto di bene e male è così soggettivo o strumentale, che spesso definirli diventa un latente esercizio di censura.

Il tifoso dicevamo deve essere “normale”, quindi composto, perfetto ed educato (proprio come i fratelli Rod e Tod Flanders), reagire sempre con il sorriso anche quando, umanamente o metaforicamente parlando, gli sale fin su al cervello quell’insana voglia di scendere in campo a spingere a calci in culo dei giocatori svogliati, perché, parafrasando una scena del celebre film “Febbre a 90”, quella che si sta disputando su quel rettangolo verde “non è semplicemente una partita” o comunque rappresenta molto altro in termini di identità collettiva e sociale.

La spettacolarizzazione, invece, rimette nelle mani della società l’onere di intrattenere gli spettatori paganti. Da quando ho memoria ricordo che, solitamente, il prepartita lo si passava al bar a discutere di calcio e non solo, oggi invece allo Stadium tutti sono composti sui loro seggiolini ad ascoltare musica disco e ad assistere ai fuochi pirotecnici. La spettacolarizzazione passa necessariamente anche dalle “trame di gioco”: in passato contava solo il risultato, anche uno sporco e immeritato 1-0 regalava ai tifosi il sorriso, ovviamente dopo aver sofferto per tutto l’arco della partita e dopo aver messo in serio pericolo le proprie coronarie. I bianconeri ci hanno provato prima con Sarri, visto lungamente come un rivoluzionario per il calcio attuato in quel di Napoli, e dopo con Pirlo, “il maestro”, più per quanto mostrato in campo da calciatore che non da allenatore, la cui breve esperienza limitata alla sola tesina scritta durante il corso da allenatore a Coverciano s’è poi inevitabilmente scontrata con tutta una serie di difficoltà pratiche che hanno portato la società a invertire la rotta nel breve periodo. I risultati non sono arrivati subito come ci si illudeva accadesse, così si è ritornati sull’usato sicuro, quell’Allegri che come filosofia di gioco non promette possesso palla, fitta rete di passaggi o pioggia di occasioni da rete ma vittorie tanto sofferte quanto sistematiche.

Anche oggi il copione è lo stesso e al nuovo tifoso più innamorato dell’estetica che del concetto di appartenenza del calcio, lo spettacolo non piace, così dopo appena venti minuti dalla pancia dello stadio si alzano i primi rumori di disapprovazione. Qui subentra il già citato processo di normalizzazione coatta, che illude i tifosi 2.0 dando loro quello che credono di volere, presunta bellezza e discutibile innovazione, ma poi impedisce pavlovianamente che il minimo accenno di disapprovazione si alzi quando gli stessi si accorgono che le cose non stanno esattamente come promesso e non ci sono più nemmeno gli ultras ad assumersi l’ingrato compito di esternarlo con cori o altre forme di dissenso.

Arrivano fortunatamente i gol e i tifosi, anzi gli spettatori, ritornano festanti. Al triplice fischio tutti in piedi a cantare come guidati da un ventriloquo invisibile che fa dire e fare solo quello che si può, come si può e quando si può, poi tutti di corsa allo store ufficiale a comprare la maglia del nuovo arrivato Di Maria, per ammortizzarne l’acquisto. 

Lo Stadium è probabilmente uno degli stadi più accoglienti d’Europa, tutto ordinato e di conseguenza prevedibile, una psicologica zona di comfort, il (non) luogo perfetto dove passare qualche ora in spensieratezza senza nessuna variabile incontrollabile che rovini la festa ai convenuti, la cui unica volontà esprimibile e tollerata è quella di pagare. Peccato perché lo stadio, per come amiamo ricordarlo, resta quel posto dove adrenalina e passione sono i tratti dominanti, spesso convertibili in rabbia agonistica dagli attori in campo. Resto convinto che vivere liberamente la partita (senza costrizioni commerciali imprescindibili) sia ancora l’unico modo per restare attaccati ad uno sport che negli anni è diventato passione, ma a differenza di quello che ho potuto vedere oggi, lo ho fatto anche o forse soprattutto grazie alla partecipazione emotiva e totale dei tifosi, che in questa circostanza possono al massimo limitarsi a osservare passivamente gli eventi, nulla di più. Se eccessi ci sono, eccessi si perseguono. Se colpevoli ci sono, colpevoli si puniscono. Colpevolizzare, strumentalizzare e generalizzare eccessi e colpe, resta uno scenario più consono ad uno stato di assenza del diritto e non già ad un tanto decantato ripristino dello stesso.

Sul fronte ultras cosa è accaduto? Come detto i Drughi sono arrivati in corteo mentre i Viking erano lì fuori dai cancelli, eppure all’interno dello stadio non si sono visti vessilli. Le maglie strette della repressione, ancor più se privata, funzionano alla perfezione e ai tifosi bianconeri, non è stato permesso di portare dentro niente fuori dal coro, fuori da quello che l’impercettibile maestro d’orchestra consente o prevede.

Non si tratta di esprimere giudizi di valore, in fondo questo modello può anche piacere e probabilmente piace davvero, altrimenti non si spiegherebbero i quasi 40.000 tifosi presenti il 15 Agosto, si tratta piuttosto di constatare che è in atto un processo di trasformazione evidente e che al tifoso viene chiesto (imposto?) di essere fruitore e spettatore, composto e educato, che paga il biglietto e consuma lo spettacolo che lo Stadium offre. La cifra della serata me la restituisce il post partita: sono troppo abituato a sentire sirene di polizia e ambulanze, spesso accese più per deformazione professionale che non per reale esigenza, ma che specie in quest’occasione mi ricordano di essere in uno stadio, non al teatro.  

Michele D’Urso
Matteo Falcone