La situazione in cui versa il nostro calcio è fortemente critica, tutto ciò è lapalissiano: vuoi a livello sportivo, il Mondiale appena concluso è una sintesi precisa di tutto ciò; a livello dirigenziale, il vero epicentro scatenante del dissesto della S.P.A. Calcio; infine a livello mediatico.

Proprio dalla fine riprendiamo, per raccontare di come il perbenismo creato da questa classe dirigente, in questi mesi, si sia scagliato contro la stessa, un effetto boomerang che ha alzato un altro polverone in un momento non esaltante.

Il focus si posa sulle dichiarazioni di Tavecchio, in particolar modo sulla discussa frase che ha scatenato l’ira e il tam-tam nel web: «L’Inghilterra individua dei soggetti che entrano, se hanno professionalità per farli giocare, noi invece diciamo che “Opti Pobà” è venuto qua, che prima mangiava le banane e adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così». In sé la frase per contenuti, forma e modi, mostra due aspetti ben lampanti: il primo, come lo stesso Tavecchio sia un tentativo goffo e vano di un nuovo corso, propiziato proprio da un personaggio che come lui, ha avuto un ruolo importante, Presidente della Lega Dilettanti, negli stessi vertici messi ora sotto accusa; infine, lo sgretolamento, un vero e proprio autogol di quello che possiamo definire l’antirazzismo di facciata inscenato nelle ultime stagioni calcistiche.

Dall’abbandono di Boateng nell’amichevole di Busto Arstizio, agli isterismi balotelliani, si è tacciato ogni stadio italiano per accusare l’intolleranza che, a detta di molti, trova nelle curve il proprio focolaio: questa stereotipizzazione bieca segna la diacronia tra la vita reale e quest’immaginario edulcorato. Sembra infatti che il razzismo nasca, cresca e si riproduca nelle curve come se la vita reale ci raccontasse altro; attenzione, lungi da me giustificare comportamenti razzisti, ma non è banale o addirittura pericoloso racchiudere questo male, o meglio la causante di questo male, in un unico settore dello stadio? La banalità di questa categorizzazione verrebbe contraddetta sin da subito, osservando quante curve professano e mettono in atto pratiche di integrazione e contrasto al razzismo, di numero e di forza uguale e contraria a chi si evidenzia invece per episodi deprecati da stampa e opinione pubblica.

Un esempio? Si potrebbe citare il trait d’union che ha visto nel 1997 la Uisp e Progetto Ultrà fondare la manifestazione “Mondiali Antirazzisti”. Partita con 8 squadre, 80 partecipanti, rappresentative di 4 Nazioni, per arrivare all’edizione del 2013 che ha visto: ben 190 squadre di calcio, più squadre di Basket, Pallavolo e Rugby con una rappresentativa di 50 nazioni. Infine a Castelfranco Emilia dal 2 al 7 luglio, quest’anno, dove sono stati protagonisti 8000 partecipanti, nel suo diciottesimo anno dalla nascita.

Oppure, dopo che alcune divergenze d’opinione hanno contribuito ad allontanare una grande fetta del movimento ultras nostrano dal più o meno omonimo “Progetto”, i tanti che sentono l’antirazzismo come parte integrante del proprio essere, hanno deciso di imbastire manifestazioni più o meno analoghe in chiave locale. Dai più politicizzati a quelli più apolitici ma mossi da pari urgenze solidaristiche, nemmeno si contano i tornei e le feste che oltre alla beneficenza (non necessariamente terzomondista) verso i più deboli, contribuiscono all’affermarsi in loco di una maggiore coesione e coscienza della forza sociale del gruppo.

L’articolo 14 delle Regole Disciplinari della Uefa fa riferimento a «chi insulta la dignità umana di una persona o di un gruppo di persone in qualsiasi modo, inclusi il colore della pelle, la razza, la religione o l’etnia». La Figc ha esteso questa norma, inserendo l’elemento territoriale nel Codice di Giustizia Sportiva comma 11 art. 1: «Costituisce comportamento discriminatorio, sanzionabile quale illecito disciplinare, ogni condotta che, direttamente o indirettamente, comporti offesa, denigrazione o insulto per motivi di razza, colore, religione, lingua, sesso, nazionalità, origine territoriale e/o etnica, ovvero configuri propaganda ideologica vietata dalla legge o comunque inneggiante a comportamenti discriminatori».

In breve si determina come il campanilismo, il sale dello sfottò, che può avere sfumature più taglienti e pesanti, viene concepito come un atto, una rappresentazione di razzismo: da qui le varie squalifiche che il giudice Tosel ha inflitto a Juve, Roma, Inter con le chiusure delle curve per i cori contro i napoletani. Ma dagli stessi, nel 6 ottobre del 2013, al San Paolo, arriva una risposta di auto-ironia che spiazza e mostra in definitiva i grotteschi aspetti della tanto acclamata discriminazione territoriale: due striscioni esposti, «Napoli colera» e «E adesso chiudeteci la curva», mandano in corto circuito la macchina repressiva che, anziché fare ammenda dei propri paradossi, non sa far altro che spallucce.

Tavecchio scivola su una buccia di banana gettata insieme agli altri dirigenti, scivola sull’ipocrisia di una lotta al razzismo costruita alla ricerca del capro espiatorio. Il tonfo mina ancor di più alla credibilità di una svolta vera.

Gian Luca Sapere.