L’episodio più di rilievo di questo strano derby non è avvenuto in una delle due curve, e nemmeno fuori dallo stadio. Il momento più turbolento si è registrato in tribuna stampa, una fila sotto di me, tra un giornalista e un gruppo di tifosi del Chievo, dopo l’1-1 della squadra che ufficialmente giocava in casa: un po’ per frustrazione, un po’ per passione sicuramente, l’addetto alla carta stampata ha fatto un gesto non proprio eticamente limpido verso alcuni tifosi dei Mussi Volanti posti sotto di lui. Ne è nato un parapiglia e, alla fine, il malcapitato giornalista è stato identificato dalla Polizia e portato via dagli steward. Ma non è solo questo ad avermi colpito, bensì quei 3-4 tifosi del Chievo che hanno immediatamente richiamato gli Steward per raccontargli la loro versione e chiedere, implicitamente o esplicitamente, la giusta punizione per il “malfattore”. In particolare un’anziana signora, sempre del Chievo, ha lasciato alle gialle pettorine i propri recapiti per una futura testimonianza. Chiaramente, il giornalista non ha fatto più ritorno nella sua postazione, e ora su di lui pende una spada di Damocle appesa al filo sottilissimo dettato dai meccanismi giudiziari e scandito da un tempo legato all’assurda tela repressiva in atto in tutti gli stadi.

Può passare che il giornalista possa essere richiamato dalla Società del Chievo, dalla testata per cui lavora e persino dall’Ordine dei Giornalisti per il suo comportamento deontologico non impeccabile. Ci può stare. Ma quello che non ci sta, invece, ed è sintomatico dei tempi, è l’accanimento contro un qualsiasi gesto ritenuto politicamente non corretto, persino in un posto che è una vera Arena (a Verona dovrebbero saperne qualcosa) che è lo stadio. Specie in un derby, specie in una fase della partita molto delicata, se non decisiva. E allora, io mi chiedo, cosa siamo diventati? Chi è il lupo mannaro della situazione? Un giornalista che si è lasciato istintivamente andare alla sua passione, pur sbagliando, o coloro che chiedono giustizia sommaria per un fatto che, fino a pochi anni fa, sarebbe stato irrilevante in qualsiasi stadio? Personalmente, a me, mettono più paura i secondi, quelli della caccia alle streghe giustificata da una sportività asfissiante, asettica, eccessiva e moralistica. Fa paura di più il puritanesimo di chi crede di non poter mai sbagliare in vita, salvo poi giudicare gli altri. La caccia all’untore, in qualunque contesto e periodo storico, non ha mai portato nulla di buono, e ha sempre segnato momenti oscuri di un’epoca. E, appunto, come dicevo, quanto accaduto mi sembra molto emblematico. Possibile che una cultura calcistica come quella italiana, fatta di passione, divertimento e anche sfottò si sia trasformata in uno squallido teatro dove va in scena la repressione e la giustizia sommaria a tutti i costi, con un cappio già pronto in mano pronto e annodato per il “bandito” di turno?

Fatta questa premessa, per me fortemente simbolica, penso di poter raccontare anche il resto di questo derby. Da una parte, sponda Hellas, si preferirebbe evitare questa parola ma, in realtà, bisogna attenersi ai fatti: questa stracittadina ha ormai 22 anni di storia e, seppur marginalmente, è il Chievo ad aver portato a casa il maggior numero di vittorie (6 contro 5). Per capire veramente il particolare contesto di un derby assai atipico, ho deciso innanzi tutto che valeva percorrere i miei 400 km tra andata e ritorno. Ovviamente non c’è nulla di tradizionale rispetto agli altri grandi scontri metropolitani della Serie A, specie sul piano ultras. I seguaci dell’Hellas, volenti o nolenti, graditi o detestati, hanno segnato una fetta importante della storia del movimento ultras italiano; dall’altra parte, invece, troviamo una tifoseria guidata dai North Side, gruppo che si è sempre definito apertamente non ultras, pur riprendendone gli aspetti più coreografici e vocali. Una distinzione forte e fondamentale. E quindi cosa c’è in questo “derby della Scala”? Sicuramente c’è antipatia reciproca, forte, fortissima, specie su sponda Hellas. Forse sarebbe più esatto definirla insofferenza. Dall’altra parte, quella del Chievo, c’è invece la forte tendenza ad autoaffermarsi pur rimanendo piccoli, e a costruire una tradizione col tempo che passa.

Se prima il Chievo sembrava volesse essere un epigono della più blasonata e seguita Hellas, ora sembra cercare volutamente una strada di differenziazione: il bianco-blu-granata, il simbolo sempre granata che racchiude la scala e, da quest’anno, il trasferimento del cuore del tifo clivense in Curva Nord hanno dato una connotazione diversa e particolare ad una tifoseria perennemente in cerca di un’identità stabile. Questo nell’ottica che la stragrande maggioranza dei Veronesi tifa e tiferà Hellas, vuoi per tradizione, vuoi per vocazione. Uno scudetto vinto, una curva da sempre dodicesimo uomo, una storia fatta di bei ricordi. Forse per coincidenza, forse no, il periodo più brutto della storia dell’Hellas è stato quello della Serie C mentre il Chievo era in A. Un po’ troppo per i supporters scaligeri.

Insomma, di carne al fuoco ce n’è tanta. E poi c’è la viva curiosità di vedere cosa vuol dire vivere questa sfida in carne ed ossa.

L’affluenza non è da record, tutt’altro. In casa gioca il Chievo, l’Hellas è ancora a digiuno di vittorie e questi fattori spingono notevolmente il fattore diserzione su sponda ospite. E, infatti, fuori dallo stadio è tutto tranquillo, e i non pochi addetti all’ordine pubblico appaiono rilassatissimi e senza pensieri.

Entrato in tribuna stampa, aspetto l’ingresso del più dei tifosi dall’una e dall’altra parte, anche se i drappi delle due fazioni sono al completo con largo anticipo. Nel prepartita veramente poco da segnalare, e i primi cori contro si registrano solo nei minuti imminenti al calcio d’inizio. Tra l’altro, in tutti i settori, lo stadio si riempie veramente solo nei dieci minuti prima dell’avvio della partita.

All’ingresso delle squadre in campo, niente di particolare a livello coreografico, pur ignorando, personalmente, il tasso di repressione applicato al pubblico del Bentegodi. I Clivensi stendono le loro sciarpe e alzano alcune bandiere. Il gruppo sistemato al centro della Nord sembra essere, pur con numeri non paragonabili ai dirimpettai, molto compatto e convinto. L’anello più grande della Sud è quasi pieno. Ai due lati ci sono dei gruppi di persone anche sedute (va ricordato, comunque, che in casa gioca il Chievo, e quindi la possibilità di entrare nella più economica Curva Sud era aperta a tutti), ma un abbondante 80% del settore è pronto e operativo. Per i “Butei” l’inizio delle danze è caratterizzato da alcune torce accese “in clandestinità” e tanta voce. Da segnalare anche un drappo degli UTC della Sampdoria assieme ad un altro stendardo blucerchiato.

In campo, come accade purtroppo sempre più spesso in quello che una volta era definito “il campionato più bello del mondo”, va in atto uno spot di una non partita non combattuta e non entusiasmante. Personalmente, mi colpisce la divisa dell’Hellas, nera e giallo fosforescente tipo quella degli arbitri, ma col nero più prevalente. Stranezze e storture del calcio moderno.

Quanto accade nelle curve, in questo primo frangente, mi lascia andare ad alcune osservazioni che, per onestà e imparzialità, mi sembra giusto fare: il potenziale della Sud, come ben si sa, è enorme ed emerge in quelle occasioni, di tanto in tanto, in cui tutti gli effettivi decidono di cantare. Alcuni picchi sono impressionanti però, forse un po’ troppo spesso, sono solo i ragazzi in basso a “sbattersi” per coinvolgere tutti gli altri, con risultati altalenanti. Sulla riva clivense, invece, quelli sono gli effettivi, quelli rimangono e quelli si danno tutti da fare. Pur mancando in continuità, i battimani, le sciarpate e alcuni cori sono veramente ben riusciti. Peccato, come detto, per la mancanza di costanza minuto per minuto, pur nel complesso di una prova ben oltre la sufficienza.

Dopo una salutare pausa tra primo e secondo tempo, la ripresa sembra almeno parzialmente portare un po’ più di agonismo. Le occasioni non mancano da una parte all’altra, pur nei limiti della non impeccabilità stilistica, ma l’Hellas sembra aver trovato di più lo spirito giusto. Ne giovano sicuramente gli ultras veronesi stipati nella Sud: l’incitamento sale, e anche la prova clivense tende leggermente ad incrinarsi. L’apoteosi per i seguaci dell’Hellas sembra arrivare al 26° quando Pisano segna la marcatura ospite, pur in fuorigioco poi dichiarato evidente dalla moviola. La Sud esplode, è veramente una bella esultanza, e qui, forse per la prima volta nella giornata, entro in quello spirito da derby che avrei voluto vedere all’inizio: alcuni giocatori gialloblu vanno sotto la curva e diverse torce vengono accese qua e là.

È tutto cambiato, e il Chievo insegue. In Nord, a parte un acuto immediato al gol incassato, sembra esserci scoramento, mentre in Sud di pregusta una dolce vittoria. Tuttavia il dessert o è stato servito troppo in fretta o non è stato ben digerito e, forse un po’ inaspettatamente, o forse no, il Chievo perviene al pareggio a 6 minuti dalla fine, con uno stacco imperioso di Castro. L’esplosione, stavolta, è dall’altra parte, e diverse file, per l’esultanza, sono scese verso il basso. Poi, nemmeno il tempo di immortalare la gioia clivense, arriva l’episodio di cui ho scritto in partenza e commentato abbastanza. Per il resto, ciò che mi colpisce è constatare, grazie alla marcatura dei Mussi, la maggioranza di tifosi clivensi nella mia tribuna e, a occhio, forse anche in quella di fronte. Questo al netto del fatto che il Chievo gioca in casa e che per il tifoso dell’Hellas non sia il massimo elargire soldi alla società di Campedelli, specie in questo frangente. Sicuramente non è un quadro riproponibile a “campi invertiti”, eppure il dato non mi lascia indifferente.

La partita è incandescente, ma alla fine termina con un giusto pari. Se, da una parte, è legittima la festa clivense, bisogna sicuramente elogiare l’incoraggiamento finale della Sud, a gran voce anche dopo il fischio finale, nonostante l’Hellas sia in una zona rossa per la sua classifica, completamente ancora a digiuno di vittorie. Eppure, di aspetti positivi come questo non se ne parla pressoché mai. Meglio condannare, sempre e comunque, chi contesta, ormai in qualsiasi forma, magari dopo aver portato infinita pazienza.

La partita è finita, e anche questo “Derby della Scala” può passare agli almanacchi.

Testo di Stefano Severi
Foto di Nikola Baljozovic