Assorto nel tepore delle mie vacanze, fortunato a stare nella metà calda di un’Italia incredibilmente stravolta, per l’altra sua metà, dal maltempo, passo il mio tempo sconnesso e abbastanza incurante di quello che passa il convento. Eppure inutile dire che una notizia ha attirato, e non poco, la mia attenzione, facendomi ripercorrere mentalmente – e non solo – alcune ricerche sulla morte di un idolo sportivo mai dimenticato: parlo ovviamente di Marco Pantani.

Come, ormai, ben si sa, le indagini sulla morte del giovane ciclista sono state ufficialmente riaperte, percorrendo un’ipotesi molto gettonata da chi fa informazione “borderline” o “outborder”, ovvero che, in quel maledetto 14 Febbraio 2004 Marco Pantani non si suicidò, né si sparò tanta di quella cocaina da rimanerci secco, ma finì ammazzato, per ragioni che si possono provare ad immaginare ma che non possiamo assolutamente essere sicuri di indovinare. Marco Pantani vittima di un omicidio. Il ciclista, amato dalle folle, strappato dalla vita con un colpo di teatro da far invidia a Racine. Facciamo qualche passo indietro.

Il ciclismo, con gli ultras, non c’azzecca assolutamente niente. È uno sport di squadra fino ad un certo punto dove, tirate le somme, conta la qualità e la forza del singolo. Un circo itinerante che percorre paesaggi mozzafiato, in tappe da 200 chilometri giornalieri. Un carrozzone che, dato il grande sforzo profuso dai partecipanti, non può nascondere, specie dopo i tanti scandali degli ultimi 15 anni, l’ombra minacciosa del doping.

Personalmente, non sono mai stato un grande appassionato di questo sport. Mi piaceva praticarlo, vederlo mai, assolutamente. Ma non restai indifferente alle gesta di quel ragazzo esile, sul quale, vedendolo così, non avrei scommesso mai una lira, che gettava la bandana a terra e pedalava in salita come fosse in discesa, rendendo imbarazzante la differenza con gli altri ciclisti.

Il ciclismo, per me, era Pantani. Così come, quando ero un ragazzino, la Formula Uno, altro “sport” da me altrimenti sempre disprezzato, era Ayrton Senna (altra strana e sospetta morte) e nessun altro. E, finito lui, finì tutto. E così fu per me con Pantani. Al punto che, partito da Roma con un amico, andai a vederlo non nella tappa dietro casa, ma fino all’Alpe di Pampeago, in Trentino. Ovviamente con i nostri striscioni al seguito. Fummo gli unici, ci risulta, a fare una cosa del genere – per carità, puro esibizionismo – ma quante avventure e quante risate. E quante prese per il culo a quei ciclisti che, prima dell’arrivo della carovana, provavano, con tanto di bandana, ad emulare il loro beniamino.

Era il 1998, ricordo quella giornata come fosse ieri. Pantani vinse, naturalmente. La nostra foto, a pochi metri dal traguardo, con il “Pirata” in rosa che scattava di fronte ai nostri striscioni è diventata un must. Pantani vinse anche il giorno dopo, quando eravamo già tornati nella Capitale. Ma quel giorno stesso fu squalificato per l’ematocrito troppo alto, e da lì cominciò una spirale senza fine, terminata pochi anni dopo al Residence Le Rose di Rimini.

Il professore che poi fu il mio relatore nella tesi di laurea, durante le sue seguitissime lezioni, diceva sempre di dubitare delle teorie del complotto, perché frutto della fantasia e poggiate su nessuna verità. Poco tempo dopo scoprii che egli fu uno dei pochi eletti ad aver partecipato ad una delle riunioni del gruppo Bilderberg, strana entità di cui oggi si sa molto di più rispetto al recente passato. Sta di fatto che la storia della morte di Marco Pantani fa parte di quell’ampia bibliografia dove le informazioni corrono binarie e su due segmenti paralleli, che possono incrociarsi solo in rari casi.

Da una parte c’è la verità ufficiale, quella delle questure, del Ministero dell’Interno e di certa stampa generalista; dalla parte opposta, in numero esiguo e con pochi mezzi per far sentire la propria voce, c’è chi guarda oltre il velo (o il muro, a seconda) di Maya e, partendo dai pochissimi dati a disposizione, frutto di qualche rara e coraggiosa voce contraria, oltre che di qualche “svista” clamorosa da parte dell’apparato ufficiale, riesce a ricostruire una verità alternativa. La quale, anche se non sempre su prove reali, si poggia su domande sensate che, da sole, bastano almeno a mettere in dubbio la versione offerta in maniera sospettosamente copiosa da agenzia di stampa o bollettini della Questura.

Tornando al caso Pantani, esso fu emblematico: le indagini ufficiali si chiusero in fretta e in furia (pare, addirittura, su pressioni del Ministero dell’Interno); fu avvalorata l’ipotesi del suicidio-overdose, ma furono ignorate, forse insabbiate, alcune prove clamorose, come, per esempio, il tentativo, duplice, del ciclista di mettersi in contatto con i Carabinieri per chiedere, probabilmente, un aiuto disperato. L’autopsia non fu fatta assolutamente a regola d’arte e, soprattutto, tanti furono i misteri legati a messaggi, più o meno subliminali, lasciati qua e là sul luogo del delitto, oltre alla presenza di cibi od oggetti che mai avrebbero dovuto essere là.

Una delle ipotesi più affascinanti, ma nello stesso tempo da provare, è quella che lega la morte del “Pirata” al mondo della massoneria, associata ad altre morte eccellenti come quella, per esempio, del suo compagno di squadra Fois, al citato Senna o, per andare nel mondo dello spettacolo, di Rino Gaetano o di Luigi Tenco (ma l’elenco delle morti sospette, a volte clamorosamente celebri, è decisamente più lungo). Chi è interessato a tali teorie, non solo a quelle sull’omicidio di Pantani, può trovare, in rete, una vasta letteratura, che non sempre è frutto di spazzatura (anche se abbonda, ovviamente, il trash anche nella “sottocultura” complottista).

Dietrologie a parte, ora che l’indagine sulla morte di Pantani ha segnato un punto di svolta, si tratta di una vittoria incredibile per chi non ha mai creduto alla verità ufficiale. Tante persone, per dirla tutta. Il cittadino che si pone domande intelligenti, con estrema fatica, ha forse trovato un pertugio per uscire dalla caverna delle verità di Stato, le quali, spesso e volentieri, hanno il solo scopo di mantenere lo status quo e le pance piene di chi si serve delle leve di potere.

La Verità, quella con la “V” maiuscola, anche se conosciuta da un buon numero di trovatori, fa fatica a diffondersi su larga scala. Se per Pantani ci sono voluti dieci anni per saperne di più sulla sua precoce dipartita, Rino Gaetano ne ha dovuti aspettare più di trenta, soprattutto grazie ai testi enigmatici delle sue canzoni. Intendiamoci, la verità completa ed esaustiva ormai è insabbiata per sempre, ma a volte, per rimanere vigili intellettualmente, bisogna accontentarsi di ciò che si riesce, al di fuori dei binari ufficiali, a ripercorrere con la propria lucidità di pensiero.

Tornando a Sport People, ai nostri amati ultras e alle nostre sempre più rare bandiere sventolanti, il caso Pantani mostra la forza di un sistema che ha cercato fortemente di occultare i veri motivi di un omicidio. Fa strano, oggi, vedere tutti quei giornali che 10 anni fa non si ponevano domande sulla fine di una leggenda del ciclismo, rispolverare quelle teorie così care ai “complottisti”; forse, oggi, a loro, fa comodo così, e magari, prima ancora di arrivare ad una verità assoluta, troppa merda verrà ancora gettata su quella bandana gialla.

Il sistema, quello dell’informazione in particolare, ha un potere manipolativo delle menti pressoché totale, ed è per questo che per chiunque non vuole vivere secondo le regole stabilite dall’alto la vita è dura. Durissima. È difficile farsi sentire, è difficile rispondere con un megafono a chi urla in diretta televisiva. I ragazzi di stadio, come quell’esile ciclista scomparso troppo presto, vengono malmenati verbalmente, isolati, ghettizzati, banditi e messi al rogo dai santi inquisitori della tv, dei giornali e del web. Siamo rimasti in pochi e circondati da una muraglia concentrica che non vede l’ora di franarci addosso. Ma, da qualche parte, il sistema, per quanto perfetto, ha sempre le sue falle. E quelle poche falle valgono molto di più di un contenitore a tenuta stagna ed asettico. Questo deve essere, per noi, il Caso Pantani.

In nome della libertà di essere e di pensiero alziamo i calici e brindiamo a ciò che siamo. Personalmente brindo a chi, finalmente, sta avendo un barlume di giustizia solo da morto. La strada che percorriamo noi, in fondo, è simile a quelle pedalate leggere sull’Alpe di Pampeago. Il gruppo arranca, il pirata solitario fa il vuoto dietro di sé e, tagliato il traguardo, alza le braccia al cielo.

Stefano Severi.