Firenze, Piazza della Liberta. Ad una manciata di chilometri dal “Franchi”, in una zona abbastanza caotica e rumorosa gli Ultras Viola hanno deciso di allestire una mostra per celebrare i loro 40 anni. Dal 1973 ad oggi, un’eternità. Facce, storie, aneddoti, gioie e dolori. La storia di uno dei più celebri gruppi italiani raccontata da chi l’ha vissuta. Arrivando da fuori Firenze, a primo impatto non è facile individuare il posto. Alle quattro del pomeriggio vi sono già decine di macchine che sfrecciano frenetiche per le striminzite viuzze del capoluogo toscano. Seguo le indicazioni “Parterre”. Penso che questo termine è davvero ricorrente qua, prima il Parterre della Fiesole ora il Parterre dove è allestita la mostra. Ad un tratto i miei occhi individuano un paio di striscioni viola appesi fuori ad un cancello. Materiale segnato dal tempo, scolorito ma proprio per questo affascinante. Mi avvicino. Comincio a studiarlo a vedere come un tempo ci si organizzava per realizzare striscioni. Stoffa con carta adesiva, niente di più niente di meno. Passione applicata alla semplicità di un’epoca in cui a fare tutto il resto erano le ugole, il fracasso dei tamburi e l’acre odore di torce e fumogeni. Mi inoltro e scopro che c’è una porticina dietro la quale si cela la mostra vera e propria. I ragazzi degli Ultras mi fanno entrare, manca ancora tanto materiale così mi invitano a ripassare più tardi quando sarà finalmente completa. Poco male per me che, con la scusa della gitarella fiorentina, ho colto l’occasione per far tappa allo stadio dove i padroni di casa ospiteranno il Dnipro per l’Europa League. Prima di varcare la porta però, l’attenzione non può che cadere sullo striscione degli Ultras. Appeso nel punto più visibile della sala con tre tamburi appoggiati sopra. Una riproduzione fedele di come doveva essere in verità. Ad un certo punto qualcuno impugna la mazzetta e colpisce con ritmo questo strumento attualmente bandito dai nostri stadi. Un brivido percorre la mia schiena. Questi sono i casi in cui i Viola potrebbero anche essere i tuoi nemici da sempre, ma c’è un qualcosa che va ben oltre rivalità, inimicizie ed antipatie. C’è la storia davanti ai miei occhi. Quello striscione, rovinato ed aggiustato alla buona in un paio di sue lettere, è lo stesso che per anni, da bambino sui primi Supertifo, ho ammirato in fotografia. Quello sovrastato da tanti ragazzi con fumogeni e bandiere in mano nella vecchia Curva Fiesole di un Franchi decrepito e vetusto. Mi accorgo, sentendo i discorsi di chi è là presente, che questi ragazzetti che ora danno del tu agli “anta”, potrebbero raccontarmi vita, morte e miracoli di ciò che è stato il tifo a Firenze. Dentro e fuori. Mi basta vedere la cura che hanno nel maneggiare striscioni e materiale per capire; nel non mettere una pezza del 7Bello troppo fuori perché “qualche bischero passa e la tira via”. Sento che sto respirando aria buona, un po’ di antibiotico per quello che, ahimè, sono abituato a vedere negli stadi di oggi. Ripercorro piccole tappe mentali e vado a ritroso, a quelle volte che anche nella mia città ho parlato, ma anche solo sentito discorsi di chi ha vissuto lo stadio in un determinato modo. C’è un minimo comun denominatore in tutto ciò. Forse da fuori, il tifoso di tribuna, ma anche qualcuno di curva, non può capire. Ma come? Roma e Firenze, due città calcisticamente rivali da sempre (seppure un tempo gemellate)? Eppure i profumi, gli odori, i discorsi ed il modo di porsi sono quelli. Mi accorgo una volta di più che agli albori del nostro movimento c’erano feroci rivalità, odi davvero acerrimi e violenti, ma di base un rispetto forte ed imprescindibile. E’ ora di andare allo stadio, tra qualche ora sarò nuovamente di ritorno.

La partita è terminata, un freddo pungente ed umido avvolge Firenze. Mentre lo stadio sfolla mi incontro con due ragazzi che gentilmente mi accompagnano nuovamente alla mostra. Stavolta al mio ingresso noto un netto cambiamento. Ci sono molte foto, libri, sciarpe ed altri striscioni. Mi fanno fotografare e illustrano diversi scatti, raccontandomi le relative storie che vi sono legate. In queste foto d’annata non c’è una faccia ingrugnata, tutti sorridono mentre fanno il tifo o entrano allo stadio portando a spalla un grosso fallo bianconero per sbeffeggiare i rivali di sempre. C’è il Pompa, una costante di quasi tutte le foto. Un capo onorato e rispettato anche al di fuori di Firenze. Parli di Stefano Biagini qua e subito le facce si acquietano diventando tra il triste e l’orgoglioso. Capisco forse solo in minima parte cosa sia stato lui per il tifo viola. Lui, come tanti altri che non sono più qui ma che hanno scritto indelebilmente il loro nome nel cuore della Fiesole. Ragazzi, uomini, ultras. Vite dedicate alla Fiorentina e spese a tramandare una tradizione di cui erano alfieri.

Anche le foto prettamente calcistiche non sono da meno, con i giocatori in maglia viola con il classico giglio rosso che campeggiava sulle maglie della Fiorentina negli anni ’80, immortalati in stadi sempre pieni e bollenti, alla faccia della violenza che era almeno decupla. Una grancassa, un amplificatore, persino dei piatti in stile Boca Juniors. Entrare qua dentro vuol dire immergersi in un modo di rapportarsi con lo stadio vecchio di almeno trent’anni. Capisco perché le curve erano piene e perché questi ragazzi facevano della propria squadra e del proprio gruppo le vere e proprie ragioni di vita. Una frase di loro mi colpisce. Un concetto che non mi è nuovo e che, come detto in precedenza, ho sentito già centinaia di volte da chi oggi ha qualche capello bianco e tanta esperienza sulle spalle. “Si parte in trenta, si torna in trenta”. E’ giusto ribadirlo. Un qualcosa di talmente romantico ed al contempo risolutivo che dovrebbe essere da scuola non solo allo stadio, ma anche nella vita. Perché anche a me questo è stato insegnato. Chi ha la tua stessa sciarpa, il tuo stesso colore ed in fin dei conti, il tuo stesso ideale, va aiutato e supportato a prescindere. A prescindere di quale gruppo faccia parte ed a qualche ordine sociale appartenga. Spesso sento fare il tipico discorso del panino, cioè che quando si va in trasferta assieme si divide tutto, ma davvero tutto, con il compagno di viaggio. A cominciare dal famoso panino. Seppure ai più giovani (e poi mi vien da ridere, non che io abbia questa età e questa esperienza ventennale, quindi spero di non risultare borioso) sembrerà un qualcosa di sdolcinato, forse di inguaribilmente romantico, fatevene una ragione. A chi oggi se ne sta abbacchiato sul pullman o sul treno con il proprio IPhone, chattando su Facebook o guardando video su YouTube per tutta la durata della trasferta. Così ci vogliono e così ormai ci hanno ridotti. Disuniti, rivali tra noi che magari indossiamo la stessa sciarpa. Frammentati ed incazzati a prescindere.

Si sono fatte le 23, il primo giorno di mostra si sta per concludere. Si cominciano a ritirare gli striscioni e ad abbassare le serrande. Onestamente vorrei continuare a sentir aneddoti di trasferte e vita vissuta fino all’indomani ma capisco che anche qua hanno una vita, una casa ed un lavoro. Scambiamo le ultime chiacchiere e poi la giornata volge davvero al termine. L’ultima istantanea prima di uscire è la prefazione di Antognoni nel libro che racconta tutta la storia della Fiesole, rimesso in vendita per l’occasione con l’aggiunta degli ultimi anni. Il legame indissolubile tra tifoseria, squadra e città era la forza. Un qualcosa che neanche il giornale più perbenista ed il politico più repressivo poteva scalfire. Nel tempo abbiamo perso tutto, ognuno per la sua strada, ognuno con i suoi interessi e nessuno quasi mai disposto a fare un passo indietro per il bene dell’intera comunità. Per me, si parte in trenta e si torna in trenta.

Simone Meloni.