Non è rimasto niente di quel bambino innamorato della maglia azzurra che è ancora là, in ginocchio sul balcone della zia, con le lacrime agli occhi perché il Brasile sta alzando la Coppa del Mondo 1994. Franco Baresi e Roberto Baggio lo hanno prima illuso, con interventi e gol da campioni, quali erano, e poi trafitto al cuore, con gli errori dal dischetto. Il gol alla Nigeria del “Divin Codino” è ancora nei suoi occhi, quando Sacchi e la sua truppa ritirano le medaglie d’argento. Quelle della sconfitta. Quelle che ti fanno bestemmiare ancor di più pensando a un’occasione sbagliata e alla maledetta fortuna che stavolta ha investito la Seleçao, dimenticandosi di chi lo stellone ce l’ha nel simbolo repubblicano.

Quel bambino, ora, la Nazionale la vede come una noiosa appendice di uno sport che è diventato, di suo, poco divertente e incredibilmente irritante. Il calcio lo ha forgiato, cresciuto e coccolato. Ma ora lo tedia e gli nega quei sogni infantili. Non ci sono più lacrime per il pallone, perché è il pallone stesso a piangere e tossire. Malandato e tramortito dai suoi gestori e dalla loro cieca voglia di monopolizzare e ingrigire ciò che di sentimentale c’era in questo sport.

L’Italia a Roma. Un qualcosa che tempo addietro mi avrebbe emozionato e colpito. Un po’ perché, in antitesi a quanto succede in quasi tutto il mondo, gli Azzurri non sono soliti giocare all’Olimpico, e un po’ perché ritenevo un orgoglio veder giocare la squadra nazionale nella sua Capitale. Stronzate, a pensarle ora che tanti dogmi e tante credenze sono svanite sotto i colpi del calcioscommesse, degli stadi svuotati, del doping, dei biglietti nominativi, delle tessere, dei muri innalzati nei settori popolari e dei divieti per ogni strumento di tifo. Giocare all’Olimpico oggi equivale, più o meno, a dar prova di resistenza a una zona ingiustificatamente diventata foriera di repressione e incostituzionalità. Perché ci vado, mi chiedete? Perché un barlume di quell’innamoramento ancora rimane, e vedere la Nazionale nella mia città per la prima volta in vita mia, è comunque un evento al quale non voglio mancare.

Il tram numero 2 si affanna lentamente verso Piazza Mancini. Il solito disordinato traffico dell’ora di punta non gli permette di svoltare in Viale Pinturicchio. A bordo ci sono tanti tifosi con improbabili sciarpe dell’Italia e qualcuno con le maglie della Norvegia. Non è certo una gara dalla quale aspettarsi tensioni o acredini, non lo sono quasi mai quelle dell’Italia. I biglietti costano poco e generalmente per una famiglia è l’occasione di vedere una partita senza troppe pretese, anche per chi non sa nemmeno che i punti a calcio si fanno segnando i gol. Strano rapporto quello degli italiani con la propria squadra, opportunista lo definirei. Alzi la mano, chi segue le gare degli Azzurri durante tutto l’anno!? Eppure se per caso si raggiungono finali e, addirittura, le si vincono, apriti cielo. Orde di “brucaccioni” che invadono le città della penisola mostrando il loro lato più trash e subumano.

Fatta eccezione per un numero ristretto di ragazzi, che negli anni ha provato a dare un seguito ultras alla Nazionale, devo dire che francamente non sono certo un fan del suo tifo. Ci sono tanti bambini poi. Il dato parlerà di 30.000 paganti, la realtà è che migliaia di biglietti sono stati regalati alle scuole calcio di tutto il Lazio, facilitando di fatto l’accesso allo stadio e nascondendo, come polvere sotto al tappeto, tutta la disaffezione nei confronti del football. Nonostante i prezzi irrisori.

Rispetto alle partite di Roma e Lazio, i controlli ai prefiltraggi sono blandi, anche se non mancano situazioni grottesche come la richiesta di esibizione del documento unitamente ai biglietti omaggio, notoriamente privi del nominativo dell’utilizzatore. In zona Obelisco solita vergognosa fila, con i controlli che procedono a rilento neanche si giocasse lo spareggio mondiale tra Azerbaijan e Armenia. Ma a questo ormai ci ha ampiamente abituato la ferrea questura romana. Ferrea, sia chiaro, quando si tratta di tifosi. Per opere restanti chiedere informazioni in Comune: sembra che in questo periodo ci sia un discreto movimento, non ultimi i casi di tangenti e appalti truccati legati al Giubileo. Ah, dimenticavo: Gabrielli e compagnia cantante sono troppo impegnati a pensare come sezionare le curve e non far entrare la bomba atomica all’Olimpico.

Una fitta pioggia comincia a ricoprire il quadrante nord di Roma. È ora di entrare. Lo scenario non è certo dei più edificanti. Tutti i tifosi sono stati concentrati nei Distinti lato Tevere, in Tribuna Tevere e in Tribuna Montemario, nonostante qualche centinaia di tagliandi staccati per le curve. E allora qua mi pongo il primo quesito: ma una questura che ha multato decine di tifosi in campionato, perché nelle proprie curve hanno cambiato posto, e ha addirittura convocato persone per redarguirle dopo averle fotografate impegnate a “compiere il medesimo reato” (qualcuno bravo vuol aprire un capitolo su come la polizia della città più grande d’Italia sperpera denaro pubblico?), dà il “la” alla chiusura di due settori facendo spostare i proprietari dei tagliandi in un altro settore, inducendoli di fatto a trasgredire la legge: può essere credibile? Chi può credere che costoro agiscano davvero per il bene della collettività e dello sport e non per smuovere le proprie carriere con il solito giochetto dell’ordine pubblico turbato dagli ultras?

Le squadre entrano sul terreno di gioco e si dispongono a centrocampo per la classica esecuzione degli inni nazionali. Parte quello norvegese e in pochi secondi viene sommerso da sonori fischi provenienti un po’ da tutto lo stadio. Senza motivo alcuno. Mi chiedo come mai i giornali all’indomani non ne abbiano fatto un caso pubblico. Ma come, si sono fatte crociate per cori di sfottò che si odono nei nostri stadi da un secolo e vengono fatti passare sottobanco dei fischi a un inno nazionale di un paese che, per giunta, non ha davvero nulla da spartire con l’Italia in fatto di rivalità o antipatia? Dunque, davvero ci volete far credere che il problema siano i cori delle curve e quella che voi chiamate “discriminazione territoriale”, piuttosto che l’obiettivo ben preciso di demonizzare e distruggere tutto ciò che è aggregazione, curva e ultras? A casa mia fischiare un inno nazionale senza ragione è un atto razzista tanto quanto cantare un “Nerone bruciali tutti” o un “Vesuvio lavali col fuoco”. Non sapete e non volete contestualizzare perché fa comodo così. Al potere di chi reprime così come all’informazione di regime.

Questura di Roma, che prodighi sicurezza e fair play in ogni dove, mi spieghi perché se i tuoi problemi esistenziali sono diventati i ballatoi e le scale da tenere libere (anziché un comune inquisito per mafia e una città strutturalmente allo sbando) quando gioca l’Italia tutti possono stare dove vogliono (come è giusto e sacrosanto che sia, dato che siamo in uno stadio e non in un lager) e quando in campo scendono Roma e Lazio l’Olimpico diventa la succursale di Regina Coeli con il controllo di Alcatraz? E voi, che usate metodi discriminatori, censori e repressivi, davvero vorreste che la gente apprendesse una minima cultura sportiva? Ma fatece er favore và, come si dice da queste parti.

L’emblema di ciò che ognuno di noi vorrebbe vedere allo stadio sono i bambini, che vedendo l’Italia in difficoltà dopo aver subito il gol, fanno partire un “chi non salta norvegese è” che viene seguito da tutto, e sottolineo tutto, lo stadio. Eppure non credo che tra loro ci siano futuri capi della Wehrmacht o della Stasi. Ma hanno semplicemente la voglia di prendere questo sport per ciò che è: un carrozzone di fanfaroni che vogliono dettare diktat dall’alto della loro ignoranza e della loro atavica presunzione. Questura di Roma, cosa vogliamo fare con loro? Dasparli? Denunciarli per discriminazione razziale? O meglio, visto che sei maestra in ciò, dividerli in buoni e cattivi e poi metterli alla berlina facendoli passare come folli terroristi?

Sì, avete ragione. Mi sono dilungato. E c’era anche una partita in campo. Pensate, persino degli ospiti. Un centinaio, o qualcosa in più, i norvegesi appostati in Distinto Nord. Di tifo vero e proprio non se ne può parlare, si fanno notare giusto con qualche manata e alcuni cori a rispondere. In campo, dopo l’iniziale vantaggio scandinavo, Florenzi e Pellè ribaltano il risultato regalando a Conte il primato. Ci sarebbe da parlare, dal punto di vista tecnico, di cosa sia diventato questo paese, calcisticamente. Della poca validità dei suoi vivai e di quanto la Nazionale traballi anche contro avversari di rango nettamente inferiore. Sarebbe bello che lo spiegassero i responsabili diretti di questo tracollo. Ma le risposte già le so. Scuse su scuse e uno scarica barile diventato ormai inno nazionale del Belpaese.

Simone Meloni.