Stavo cercando un’immagine per attualizzare il racconto di una partita giocata ormai sette giorni fa. Nel mezzo la Roma è scesa nuovamente in campo a Udine mentre il Benevento ha conquistato la sua terza vittoria in campionato, battendo il Crotone.

Non ci sarebbe forse più ragione per scrivere un pezzo solo e soltanto su Roma-Benevento. La velocità con cui lettori e rete assorbono le notizie, persino quelle narrative, è spesso disarmante e costringe anche noi ad accelerare i nostri tempi di scrittura. Sebbene un genere discorsivo, come quello adottato da Sport People, andrebbe concepito e “gustato” con la giusta calma. Inoltrandosi in analisi che spesso vanno ben al di là del singolo match.

Senza tirarla troppo per le lunghe, da domenica scorsa parecchi eventi hanno coinvolto i tifosi delle due squadre, costringendomi a chiamare in causa – seppure indirettamente – anche l’Udinese.

La sfida tra i giallorossi romani e quelli campani è ovviamente un inedito. E se il lato calcistico lo tralascio (anche perché parlare della pochezza che si vede nei campi italiani sarebbe davvero noioso) ritengo ancora giusto e attuale soffermarmi sulla sentenza degli spalti. E provare a incrociare in diverse strade i destini, gli umori e le reazioni delle rispettive tifoserie.

Parere personale: a livello di tifo la sfida dell’Olimpico ha fatto registrare, con tutta probabilità, la peggior prestazione dell’anno su fronte romanista (equiparabile solo alla partita contro il Crotone). Troppa svogliatezza, troppo livellamento verso il basso ormai quando si tratta di questo genere di gare. È vero, l’aspetto sportivo non infuoca di certo gli animi. I risultati sovente sono scontati e già scritti. Tanto che persino il sorprendente vantaggio della Strega in avvio di gara non sembra preoccupare più di tanto la Sud e lo stadio in generale.

Però resta la mestizia di constatare quanto ormai il pubblico (in generale) non abbia più percezione di poter essere veramente il dodicesimo in campo. Lo senti nei cori, gridati con sufficienza, e lo vedi nella facce di chi, anche dopo rovinose sconfitte, esce lo stesso con il sorriso sulle labbra. E peggio ancora lo intuisci nel vedere quei buchi in curva, non solo figli delle vergognose e coatte riduzioni di capienza operate negli ultimi anni, ma frutto anche del tifoso 2.0. Quello che si abbona con la consapevolezza di non esserci per tutte le 19 giornate. Non me ne voglia nessuno, affrontai il tema già tempo fa, ma per me resta inconcepibile. Avere un titolo annuale in tasca per un tifoso è sempre stato una vera e propria assunzione di responsabilità. La responsabilità di saper supportare l’impegno preso e non voltare mai le spalle ai propri compiti. Nel bene o nel male. Contro il Real Madrid come contro il Rayo Pellicano (esiste, vi giuro che esiste).

Vi chiederete: e i beneventani? Per loro si trattava della prima volta all’Olimpico contro la Roma. A livello numerico la presenza è ottima – anche perché, a differenza della gare giocate al Nord, la partecipazione di “fuori sede” è ovviamente minore – così come bella è l’entrata del contingente ultras, che con un po’ di irruenza si posiziona nella parte bassa del Distinto, dirigendo il tifo e “illuminando” il settore con un paio di torce. Una prestazione tutto sommata buona, sempre se si tiene conto della pesante sconfitta rimediata (finirà 5-2) e di una classifica che vede i sanniti già con un piede in Serie B a tre mesi dalla fine del torneo.

Certo, è chiaro che il passaggio dalla C alla A per certi versi è stato traumatico ed ha portato al seguito dei campani tutto uno stuolo di persone che raramente prima avevano messo piede in uno stadio. Ciò ovviamente non può facilitare il lavoro di maturazione che ogni curva vuole svolgere in questi casi. Ma parliamo pur sempre di un’era, quella contemporanea, mediocre e dozzinale per definizione. E quindi non convenzionale per un movimento trasversale come quello ultras.

Bisognerà vedere con quale umore la Benevento calcistica accoglierà il pronto ritorno tra i cadetti e come gli ultras sapranno far tesoro di un anno che, comunque, li ha visti viaggiare nei grandi palcoscenici del pallone nostrano.

Un pallone che ormai è capace di gestire i propri tifosi neanche più come clienti, ma come oggetti d’intralcio da punire, stigmatizzare e persino schernire all’evenienza. E qui voglio ricollegarmi al pubblico della Roma.

Dopo i fatti di Verona il tifo organizzato capitolino dedica buona parte di inizio partita agli scaligeri e ai cori contro la repressione. Su alcuni muretti fa capolino il numero 21, corrispondente alla cifra di supporter fermati la settimana prima in Veneto.

A seguito di ciò è stato interdetto l’accesso ai residenti nel Lazio per la successiva trasferta di Udine. Con le tifoserie in ottimi rapporti da ormai tanti anni (un po’ come quello successo ai veronesi a Genova, con la Sampdoria). Vista la proverbiale lentezza del Casms nell’emanare le proprie determinazioni, molti tifosi romanisti avevano già acquistato il tagliando per lo Stadio Friuli

Cosa succederebbe, quindi, in un posto normale (partendo dal presupposto che in un “posto normale” non esisterebbero divieti di trasferta)? Si rimborserebbero gli acquirenti dei suddetti biglietti. E invece non è così. Chi è in possesso del tagliando può accedere allo stadio. Di colpo quel “tifo organizzato violento e problematico” – come è stato definito dalle menti che settimanalmente partoriscono queste cervellotiche decisioni, tirando fuori, tra le motivazioni, addirittura le tensioni registratesi contro l’Atalanta nel 2016 (come è misera la vita negli abusi di potere) – diventa candido e comunque meritevole di assistere a una partita. Dando vita a una discriminazione nella discriminazione. Classico siparietto all’italiana.

Chiaro che proprio quel tifo organizzato descritto come il demonio sulla terra decida di non partire in blocco per il Friuli, lasciando il settore a poche unità di tifosi.

Ecco, se questo articolo si è aperto con una critica palese alla Sud per il suo modo di tifare e vivere la partita in casa, al contrario credo che non possa non essere riconosciuto agli ultras romanisti un forte attaccamento a determinati modi di essere. Attaccamento che fortunatamente non è andato perduto negli anni. “Si parte in trenta, si torna in trenta”, mi disse qualche anno fa un vecchio esponente di una storica tifoseria, raccontandomi un episodio alquanto turbolento in cui non si volle lasciare nessun compagno di trasferta da solo. In questo caso potrei parafrasare dicendo: “Non partono tutti, non parte nessuno”.

Se qualcuno pensa di far sgualcire e distruggere il valore dell’amicizia, facendo passare per normale il voler far partire Tizio perché ha acquistato il biglietto un giorno prima di Caio, infischiandosene anche del comune senso di appartenenza dei due, mi sa che per ora ha sbagliato strada. Del resto non lo hanno capito ai tempi dei primi divieti e della tessera del tifoso, appare impossibile che lo capiscano ora.

Regole di solidarietà vecchie come il mondo. Che proprio questo mondo oggi vorrebbe descriverci come sbagliate. Ma che nell’universo del tifo organizzato, bisogna ammetterlo, quasi sempre persistono in maniera netta. Se l’idiozia di una simile imposizione prefettizia è sotto gli occhi di tutti, ma questi “tutti” fanno spallucce e anche la società, che teoricamente potrebbe usare lo strumento del ricorso al TAR (quanto meno per dare un segnale preciso), non si muove a difesa dei suoi tifosi, allora è sacrosanto che essi si tutelino da soli. E a Udine non ci vadano.

Testo di Simone Meloni.
Foto di Cinzia Lmr.