Le idee rimbombano in testa ma non si depositano, non diventano verbo.
Ho l’impressione che qualsiasi parola sarebbe limitante.
Che nemmeno le fotografie riescano a descrivere quello che hanno visto gli occhi, quello che ha sentito il cuore.
Casa mia, o almeno quella che per qualche anno mi toccherà considerare tale, è troppo distante dall’Olimpico per potersela fare a piedi e allora cammino un po’ intorno allo stadio e mi godo fino alla fine le facce della gente che defluisce pian piano.
Tanti di loro questa serata se la ricorderanno per tutta la vita.
Tanti era una vita che la stavano aspettando.
Il casino lascia spazio lentamente alla solita Torino. Corso Unione diventa via Giordano Bruno, il vociare diventa silenzio.
La mancata consapevolezza di aver fatto da sfondo ad un pezzo di storia di questo sport.
In settimana, quando è stato chiaro che non si sarebbe giocato al Moccagatta, mi sono arrabbiato e parecchio.
Era come se la Lega avesse deciso per l’ennesima volta di sfregiare la bellezza del calcio.
Poi ho pensato alla Macedonia.
Quest’estate l’ho attraversata tutta con qualche amico.
Un paese assurdo, completamente fuori dai canoni europei, da quelli balcanici, forse da quelli mondiali.
Un paese brutto, in tutta franchezza. Senza guizzi, senza luoghi da ricordare.
Però, ogni sera, ogni volta che si parla di viaggi o si beve qualche goccio in più, mi torna in mente. Nitido e bellissimo.
Un po’ per il cinquantenne al bar sul Vardar, che di anni ne dimostrava settanta e che aveva una storia per ogni paese che l’aveva visto crescere, e attorno a sé le puttane più brutte mai viste. Un po’ per i due albanesi, ubriachi e molesti, con la loro storia di delinquenza italiana da raccontare. Per noi, su un taxi abusivo al confine con la Grecia, costretti a fingere di essere amici dell’autista, diretti al mare. Per la donna serba scappata dal proprio paese che ha trasformato la sua casa in albergo.
Tutto questo per dire che la storia la scrivono le persone, molto più dei luoghi.
E stasera ne ho avuto una riprova.
Nei quasi quaranta pullman incolonnati su Corso Gianni Agnelli.
Negli occhi velati dell’addetto stampa, all’ingresso in campo delle squadre.
Nei racconti di chi, seduto accanto a me, ha stampato in testa cent’anni di storia Mandrogna.
Ho avuto la netta sensazione che accanto ai grigi ci fosse davvero una città intera.
Ognuno con la propria storia da raccontare, di vita e di tifo.
E per questo dentro è stato bellissimo.
Picchi di tifo incredibili e silenzi profondi, di tensione. O di incredulità.
Aiutati da una squadra che ha sofferto ma non ha mollato un centimetro e si è presa, giustamente, gli applausi prima, durante e dopo la partita.
Con i milanisti dall’altra parte, rumorosi e compatti, ma mero contorno ad una festa che li vedeva ai margini.
Arrivo a casa con uno degli ultimi 13. Non riesco a dormire.
Chissà come mai chi governa il calcio non è in grado di far diventare queste storie la normalità.
O quantomeno di tutelarle.
Chissà cosa sarà passato nella testa dei tifosi grigi, un attimo prima del fischio d’inizio.
Chissà come andrà a finire.
Chissà se sarò in grado di trovare le parole giuste.
Chissà se un giorno vivrò tutto questo anch’io, con la mia sciarpa al collo.
Chissà perché questo Sport ancora mi emoziona.

Gianluca Pirovano.