Mi è capitato, qualche sera fa, di rivedere “Hook, Capitan Uncino”. Noto film di Spielberg su Peter Pan che in molti della mia generazione hanno apprezzato e rivisto svariate volte tra l’infanzia e l’adolescenza. Complice anche un cast di tutto rispetto con la presenza di Robin Williams, Dustin Hoffman, Julia Roberts, Gwyneth Paltrow e Maggie Smith. È una pellicola che riesce sempre a suscitarmi sensazioni positive, malgrado abbia ampiamente passato la fascia d’età a cui è destinato. Pensavo quindi a Peter Pan e a quanto la sua figura sia stata per tanto tempo aderente alla mia realtà e a quanto – oggigiorno – difficilmente riesca a ritrovarla nella mia mente e nella mia quotidianità. Cosa c’entra tutto ciò con Latina-Foggia? Nulla se vogliamo essere pragmatici. Molto se vogliamo parlarne in maniera ampia e narrativa.
Rimettendo piede sul manto verde del Francioni, con la mia vissuta e scassata reflex, ho di nuovo avvertito quella sindrome da Peter Pan di cui senza accorgermene mi sono beato per tanto tempo. E grazie alla quale ho potuto crogiolarmi in qualcosa di davvero raro: la spensieratezza. Che poi non si tratta di sindrome ma del saper sognare. Del saper vedere – ad esempio – anche in un normalissimo evento sportivo, il suo contorno e la sua parte fiabesca. In fondo la differenza tra lo stare seduto sugli spalti e analizzare passivamente gli schemi di gioco e riuscire a costruire racconti e storie sul complesso valore sociale/ludico del tutto, sta anche qua: saper vedere con i propri occhi sfumature e magie che per molti sono insignificanti dettagli.
In questa calda domenica di fine settembre sono contento di esser solo a scattare. Non me ne voglia nessuno ma di chiacchierare non ho molta voglia e il potermi immergere solo e soltanto nelle foto, nell’osservazione delle curve e nelle mie valutazioni personali mi restituisce un minimo di serenità. Magari non mi lascia ancora briglia sciolta per tornare a sognare a trecentosessanta gradi ma è come se sentissi una manina battere dei colpi sulla mia spalla per ricordarmi qual è la direzione. A questo punto mi verrebbe quasi da invocare la fatina Trilly per indicarmi la celeberrima “seconda stella a destra poi dritto fino al mattino”.
Mettendo un attimo da parte le mie elucubrazioni ammetto di rimanere abbastanza colpito dalla discreta cornice di pubblico presente. Sono circa duemilacinquecento i biglietti venduti, di cui quattrocentotrenta staccati nel capoluogo dauno. Questo conferma che c’è voglia di tornare alla normalità e malgrado capienze ridotte, restrizioni relative al Green pass, campagne mediatiche che da un anno e mezzo a questa parte demonizzano tutto il demonizzabile e pseudo politici/governatori che aprono bocca per darle fiato e acquisire qualche consenso, la socialità e l’aggregazione che solo posti come gli stadi, i concerti, i teatri e i cinema possono assicurare non è stata scalfita, ma solo forzatamente sopita.
Qualche minuto prima del fischio d’inizio le due curve si compattano. La Nord pontina è ritornata sulle gradinate dalla precedente trasferta di Avellino mentre i supporter rossoneri hanno ripreso a presenziare sin dalla prima gara ufficiale dei Satanelli.
Zdenek Zeman sfila davanti ai miei occhi e non posso fare altro che fotografare uno dei personaggi più discussi, amati e odiati degli ultimi trent’anni. Non rientra esattamente tra le mie ammirazioni calcistiche. Da tifoso di una delle sue squadre più competitive non gli posso perdonare quattro derby persi in una stagione (figlie della sua ottusa e decontestualizzata mentalità: “Il derby è una partita come le altre”) e una serie di sconfitte davvero ridicole, sebbene gli riconosca di aver riportato a buoni livelli (almeno di classifica finale) una Roma che veniva da anni di grande ridimensionamento post Dino Viola. Mentre sulla sua seconda esperienza in giallorosso ma – ancor più – su tutta l’aura di mito e maestro che negli anni si è costruito (al cospetto di sconfitte, esoneri e figuracce di cui mai e poi mai ha saputo prendersi responsabilità) preferisco stendere un velo pietoso onde evitare perfidie. Comprendo che in molti a Foggia ancora lo possano venerare per quella squadra che tanto bene fece a inizio anni novanta, ma allo stesso tempo mi viene anche da dire che il tempo passa e i brodini riscaldati di solito poco garbano e peggio ancora funzionano. E questo, ahimè, non lo dico io ma la carriera del boemo. Per me resta intatto un concetto: meglio un brutto 1-0 con un tiro in porta in novanta minuti che uno spettacolare (per gli altri) 4-5 o 2-8. A buon intenditor poche parole.
Tornando agli spalti: i ragazzi di Latina fanno gruppo sul muretto centrale e offrono davvero un’ottima prestazione per tutti i novanta minuti. Tante le bandierine, ottimi battimani, qualche fumogeno e tifo costante che spesso riesce a coinvolgere tutti i presenti. Un girone come il loro, con grandi città e piazze storiche al cospetto, offre senza dubbio grandi stimoli per presenziare e confrontarsi con l’altra tifoseria. Lo striscione con cui la Nord invita tutti alla trasferta di Taranto la dice lunga su come gli ultras pontini abbiano deciso di affrontare quest’annata.
Sul fronte opposto i foggiani sfoderano una prestazione maiuscola: compatti, intensi e costanti. Solo due bandieroni (a rappresentanza delle due curve) e i classici striscioni con cui gli ultras dauni girano ormai da qualche anno, fanno da proscenio a veri e propri boati nei cori a rispondere e a un tifo che funge da autentico sponsor al modello italiano.
Sostanziale indifferenza tra le due tifoserie. Terminato il gemellaggio che per anni ha legato le due piazze non sembrano esserci stati strascichi, anzi vanno sottolineati i diversi cori dei pugliesi contro il Frosinone.
In campo gli ospiti passano in vantaggio nel primo tempo venendo però ripresi nei secondi quarantacinque minuti. Finisce 1-1, un risultato che va bene ai pontini mentre lascia l’amaro in bocca ai pugliesi, leggermente beccati dal proprio pubblico al rientro negli spogliatoi.
Restituisco la pettorina e lentamente conquisto la via d’uscita dando un’ultima occhiata al terreno di gioco. Per anni è stata quella la mia Isola che non c’è.
Simone Meloni