La mia prima presenza all’Olimpico si rivela una fortuita occasione, frutto di incastri di impegni e improvvisazioni dell’ultimo momento. Una volta giunta nella capitale, perché non approfittarne?
Lazio-Real Sociedad, partita di ottavi di Europa League, è anche la prima in cui L’aquila Olympia non volerà sulle teste del popolo bianco-celeste, dopo 15 anni di partite casalinghe. Un cambiamento che segna a suo modo un’epoca.
Entrare all’Olimpico è un’esperienza che va oltre il semplice assistere a una partita: è immergersi in una cultura, in una tradizione che affonda le radici nel cuore della città. La sensazione si fa viva già in strada, attraversando Ponte Milvio e poi via lungo Tevere per raggiungere lo stadio. Paninari, “3 Borghetti 5 euro”, tour di adesivi e botta e risposta di graffiti Roma/Lazio, bandiere che sventolano, slalom nel traffico e ragazzi che gridano ai passanti “signoraaaa Forza Lazio”, un percorso che si snoda tra tifosi e famiglie veterane di questi rituali.
Questa sera sono in compagnia di mio cugino, un tifoso non praticante della Lazio. Seguendo il fiume vero e il metaforico fiume di gente, varchiamo l’ingresso, ma prima di prendere posto in tribuna, ci affacciamo alla balconata, guardandoci intorno. “Visto che roba?” mi dice, sorridendo felice, e penso a quanto sia speciale vivere lo stadio con i tifosi.
La posizione è confortevole, con una buona visuale su entrambe le tifoserie. Gli ospiti hanno già occupato il loro settore, e il resto dello stadio si riempie a vista d’occhio. Mentre il fischio d’inizio si avvicina, l’emozione cresce: le sciarpe vengono alzate al cielo e lo stadio diventa una sola voce. Se l’assenza di Olympia fa la differenza, non so dirlo; tutti mi sembrano carichi e motivati.
Questa serata è davvero particolare dal punto di vista del tifo. Nel primo tempo, quello di casa è incisivo e incessante, accompagnando perfettamente i toni altissimi in campo, con i tre gol che si susseguono e tutti in piedi. Qualche fumogeno si accende in curva e in tribuna Tevere. Gli ospiti cantano e alzano le sciarpe, ma sentirli è impossibile: ci sono solo i laziali.
Tutto questo si interrompe bruscamente alla fine del primo tempo, dopo l’esposizione dello striscione in curva, in risposta a quello dei romanisti nella partita col Genoa: le bandiere vengono ammainate e gli striscioni messi via, la curva resta muta. Il mio occhio, più attento alle curve che al gioco in campo, se ne accorge subito, ma presto anche il resto dei tifosi. Le voci corrono, si pensa a proteste contro la dirigenza, ma è evidente che quanto sta accadendo è in riferimento agli scontri avvenuti in città la sera precedente, più precisamente alla sopraggiunta notizia di decine di arresti e perquisizioni a carico di tifosi laziali operati per tutta risposta dalla polizia.
Il secondo tempo è quindi un’esperienza surreale, in cui anche chi non è fanatico dei cori da curva si rende conto di quanta differenza faccia, anche sull’umore in campo, avere il sostegno del tifo, non solo come “compagnia musicale” di sottofondo. I piccioni iniziano a volare bassi sul pubblico, non avendo il disturbo dei battimani a cacciarli via. I toni sono preoccupati, nonostante la vittoria in campo.
È l’occasione però per la tifoseria ospite di alzare i toni, e finalmente si possono sentire in maniera più chiara anche loro: presenti in ottimo numero, sono compatti e ben motivati, nonostante la sconfitta in campo, e al momento dell’unico gol esultano con una gioia tale da far sembrare che avessero vinto.
Al fischio finale, il silenzio è rotto e torna il canto e, con Battisti e le sciarpe alzate nuovamente al cielo, lasciamo lo stadio, con emozioni differenti e contrastanti.
Testo di Imma Borrelli
Foto di Agenzia
























































