Il derby è polemica perenne, vero. Ci sta. Fa parte di questa partita e in fondo è il sale della stessa. La rivalità, lo sfottò, i veleni e le chiacchiere che si protraggono anche a giorni di distanza. La stracittadina è una turbina di veleni e rivalse, ancor più quando giocata in una gara secca, che decreta il passaggio del turno in coppa oppure, a maggior ragione, l’assegnazione della stessa. Non starò qua a fare morali a nessuno, il Derby della Capitale dagli anni novanta in poi è sempre stato appuntamento di un certo tipo. Vietato ai deboli di cuore e ancor più a moralisti da quattro soldi che dall’alto della loro tracotanza vorrebbero insegnare come affrontare una rivalità. Quello che invece mi rimane indigesto e che oggi anche a queste latitudini vedo trionfare serenamente, è talvolta il gusto del macabro. Della condivisione a cuor leggero e del totale non rispetto delle più basilari regole di vita una volta che si ha un cellulare in mano. Francamente mi importa il giusto se siano romanisti, laziali, viola, napoletani o juventini. La domanda è sempre quella e abbraccia diverse sfere dei nostri tempi contemporanei: ma davvero di fronte ad alcune scene e ad alcune situazioni l’unica cosa che il nostri istinto ci dice è fotografare, postare, condividere e spammare? Ci siamo davvero così rincoglioniti?
Tralasciando tutto il discorso (fatto milioni di volte) che riguarda la vera e propria militanza ultras e, di conseguenza, con la mania di riprendere e pubblicare porta a una stupida auto-delazione – argomento che rimarrà sottaciuto finché gruppi e direttivi non lo prenderanno tra le mani stigmatizzando i novelli influencer o prendendo le distanze da chi spesso proprio a capo di una curva si erge a tiktoker -, penso si sia arrivati a un punto di non ritorno vedendo certo immagini. Del resto, scusate se faccio demagogia e populismo, una delle cose che più mi è rimasta impressa di questi tempi è un ragazzo che va a fuoco ai bordi del Grande Raccordo Anulare e un automobilista che invece di soccorrerlo lo riprende sbeffeggiandolo (il ragazzo poi morirà, giusto per la cronaca). Ahimè, in parte (gran parte) siamo anche questo, forse sono stupido a credere che in una cartina al tornasole della società come lo stadio la musica possa cambiare.
Volendo parlare della gara di oggi, cominciamo con il dire che solo uno sport manovrato dalle televisioni come il calcio italiano può pensare di programmare un derby di Coppa Italia alle 18. Proprio nell’ora di punta, quando tutti sono impegnati a tornare a casa, in una città già caotica e trafficata come Roma. Un mix, quello tra programmazione del tubo catodico e gestione dell’ordine pubblico, che risulterà infatti a dir poco letale. Chi ha potuto si è messo in marcia verso l’Olimpico già alle 13, mentre i poveracci che al massimo hanno ottenuto un’ora di permesso sono arrivati a ridosso del fischio d’inizio entrando quasi alla fine del primo tempo. Questo grazie alla sempiterna efficienza del sistema d’afflusso italico, vero punto di forza di chi è chiamato a gestire l’ordine pubblico. Un aspetto talmente pensato e ben gestito che fa sorgere grossi dubbi su come sia possibile che tutto sommato ci siano scappati sempre pochi morti nel calcio nostrano. Ovviamente c’è chi ha dovuto proprio rinunciare alla partita. Ma anche qua, la spiegazione va argomentata: oltre all’orario ha inciso il solito, folle, prezzo dei tagliandi. Basti pensare che curve e distinti costavano 45 Euro. Che poi, volendo essere davvero pignoli, se è vero che le due società romane ormai da tempo applicano vergognose tariffe, è altrettanto vero che le rispettive tifoserie mai si sono sognate di contrastare questo trend. Arrivando ormai a essere “complici” dello scempio.
Poi cosa dire della gestione complessiva da parte delle forze dell’ordine? Tutti molti bravi a condannare le scaramucce sulle gradinate, ma nessuno a domandarsi come si pretenda che a dividere due tifoserie ci siano quattro ragazzetti svampiti con le pettorine gialle. A suon di divieti, restrizioni, limitazioni e repressione varia, ci si è talmente disabituati a gestire e lavorare, che ormai neanche i compiti basilari si è più capaci di ricoprire o coordinare. Personalmente ho visto sempre lo steward come una delle figure più inutili, ridicole e controproducenti di questo calcio contemporaneo. Gente che raramente è in grado persino di fornire un’indicazione e che per qualche spicciolo a volte si sente Rambo in giallo fosforescente. Un gran caos, dove si è fatto finta di adempiere a normative ed esempi europei ma dove il lassismo e la negligenza italiana trionfano alla grande. E tornando alle code dei tornelli, ma è mai possibile che ogni volta in queste occasioni ci sia chi non riesce a entrare malgrado un biglietto regolarmente pagato e chi preferisce addirittura tornare a casa per evitare il tritacarne necessario prima di raggiungere gli ingressi?
Volendo analizzare da un punto di vista ambientale la sfida, c’è da dire che la stessa conferma il trend degli ultimi anni: l’acredine tra giallorossi e biancocelesti è tornata a crescere e affondare le radici in tutta quella ruvidezza di cui la Capitale è da sempre capace. Non me ne voglia nessuno, ma tramontato purtroppo da anni il Derby di Torino, a livello di tensione, “cattiveria” e ambiente, quella capitolina è l’unica stracittadina ad aver mantenuto dei criteri retrò. Sì, è vero: Genova in parte le si avvicina, grazie all’incrollabile passione delle due tifoserie e a uno stadio che fa sentire costantemente il fiato sul collo. Ma parliamo anche di due città diverse, che nel substrato sociale, culturale e curvaiolo hanno chiaramente situazioni sovente distanti. Sta di fatto che già dal pre partita sugli spalti si respira un’aria tutt’altro che distesa e le curve si beccano a più riprese. Lo scambio “pirotecnico” tra Distinti e Tevere rimanda la mente a qualche lustro fa, mentre la musichetta degli sponsor in sottofondo rende il tutto ai limiti del surreale.
Altro aspetto su cui porre l’accento è l’apprezzabile ritorno all’esposizione di molti striscioni da una parte e dall’altra. Certo, un tempo era necessario entrare due ore prima per appuntarsi tutti quei messaggi che trasudavano di romanità pura in fatto di ironia e si districavano perfettamente tra prese in giro e messaggi in codice che solo le curve potevano capire. Oggi restano gli striscioni più “significativi” da un punto di vista ultras e di tanto in tanto qualcosa di sarcastico spunta fuori. Ma per i tempi che corrono, per l’appiattimento di fantasia e creatività, è comunque un bello spettacolo. Anche perché lo striscione è forse la prima e vera arma con cui un settore diffonde il proprio credo e i propri sentimenti. Non a caso questi strumenti sono stati i primi a esser combattuti, vietati e demonizzati dai censori del tifo organizzato.
Dopo l’ormai – purtroppo – consueto spettacolo di luci, quando le squadre stanno per fare il loro ingresso in campo le coreografie cominciano a mostrarsi. In realtà su fronte laziale lo show era già iniziato qualche momento prima, con un telone raffigurante il Dio Marte esposto in maniera errata, per sfottere i romanisti circa la coreografia, non perfettamente riuscita, nel derby d’andata. Telone che successivamente è sceso sovrastando la frase “Discendenti di Roma, padroni della storia”, andando di fatto a ripetere la scenografia giallorossa di cui sopra (anche nell’esposizione dei cartoncini, che formano i fulmini da sempre associati a Marte), a mo di presa in giro. Mentre una volta terminato il tutto, dai ragazzi in pista sotto la Nord è stato esposto l’ironico “Figli unici di Roma”. Dall’altra parte, con una Sud in inferiorità numerica per il derby in trasferta ma da subito agguerrita da un punto di vista canoro, lentamente è sceso il telone raffigurante la prima squadra dell’AS Roma mai scesa in campo, nel 1927, e il messaggio: “AS Roma la scelta di un popolo”, il tutto completato da migliaia di bandierine arancioni, rosse e nere. Uno spettacolo semplice ma tutto sommato ben riuscito, peccato solo per il telone centrale stampato anziché dipinto a mano, come generalmente è solita fare la Sud.
Lazio-Roma si sa, è una partita sentita e sin troppo vissuta dai presenti. A memoria difficilmente ricordo prove memorabili di tifo, ma questo fa parte dell’infinita passione che i tifosi romani provano nei confronti delle loro compagini. In linea generale, se oggi devo analizzare le performance, probabilmente sono i romanisti ad aver dato un qualcosa in più dal punto di vista canoro, almeno fino al decisivo gol laziale siglato su rigore da Zaccagni a venti minuti dal termine. Resta comunque sempre l’ottima prova cromatica delle due fazioni, con bandiere, sciarpe e tanta pirotecnica a farla da padrona. Mentre provo sinceramente emozione nell’appurare quanto anche le tribune teoricamente “più fredde”, come la Monte Mario, in certe partite si lascino andare ad atteggiamenti beceri e tutt’altro che sportivi. Altro motivo per il quale ritengo la stracittadina romana un passo avanti alle altre, perché quel filo di sana cattiveria vive pure in gente che magari quotidianamente non vedresti scomporsi neanche di fronte a chissà quale evento funesto della propria vita.
Il finale è, chiaramente, contrassegnato dalla grande gioia laziale, che al triplice fischio deflagra irridendo gli avversari e festeggiando l’approdo alle semifinali, dove la squadra di Sarri troverà la Juventus. Umore contrapposto su sponda romanista, che copre di fischi la propria squadra, continuando tuttavia a cantare per se stessa e mostrando ai dirimpettai l’immortale orgoglio di appartenenza. Quando il pubblico comincia a defluire manca poco all’ora di cena e, guarda caso, la città è nettamente più praticabile. Il che la dice lunga su quale fascia oraria sarebbe dovuta ricadere la scelta della Lega. Ma sono discorsi inutili, considerato che ormai il prodotto calcio è in mano ai diritti televisivi e non certo ai propri dirigenti. Ancorché ai tifosi (figuriamoci). Chiudo salutando tutti quei soggetti scandalizzati dal dover muovere tanta forza pubblica per “una partita dove la gente dovrebbe solo divertirsi”. La gente si diverte giocando a padel, guardando una partita di rugby dove manco sa le regole. Non certo vivendo un derby!
Testo Simone Meloni
Foto Agenzia

















































































