Una buona dose di tensione avvolge tutta l’area circostante lo stadio Olimpico già diverse ore prima del fischio d’inizio. Rispetto ad altri derby del recente passato, si percepisce un’aria più frizzante attorno a quella che è diventata una partita a dir poco schizofrenica, tra appelli farneticanti di televisioni e giornali nei giorni che la precedono, e ricostruzioni a dir poco fantasiose nella settimana successiva da parte di pennivendoli bisognosi di qualche attimo di notorietà, come spesso accade a spese dei tifosi.

Poi ci sono i social, che la stracittadina l’hanno impiccata su una croce trafiggendola al costato come neanche a Gesù Cristo era capitato. Senza voler cadere nel “boomerismo” spicciolo, vale però la pena sottolineare come ormai l’utilizzo massivo, delatorio e improprio di questo mezzo abbia spostato l’attenzione più su tutto quello che si ritiene soggetto a morale o censura, piuttosto che sull’aspetto cromatico, caratteristico e partecipativo. E soprattutto in giornate come queste, in cui all’Olimpico si è respirata aria di vecchi derby, è davvero un peccato. Già negli anni si è proceduto a smantellare parte di quel fascino che la sfida tra le due capitoline ha sempre esercitato, uccidendo tutto il rituale degli striscioni, che rendeva piacevole recarsi sulle gradinate con lauto anticipo per godersi uno spettacolo misto tra ironia romana, messaggi di stampo prettamente ultras e qualche invettiva becera, che poi riverbera alla perfezione la “cattiveria” cittadina applicata al calcio.

Così, mentre per una settimana abbiamo letto di intrecci (alcuni davvero improbabili) tra le tifoserie romane e quelle straniere – che a detta di qualcuno sarebbero calate sulla Capitale in stile lanzichenecchi – e mentre a livello mediatico ci si divertiva a gettare benzina sul fuoco, non capendo quanto ciò porti a un’esasperazione degli animi sia da parte dei tifosi che di chi è chiamato a gestire l’ordine pubblico, l’attesa per la sfida parallelamente cresceva. Smaltita la sbornia (sponda Roma) e la delusione (sponda Lazio) per le rispettive vicende europee, la concentrazione si è gradualmente spostata sulla partita che da queste parti può valere buona parte della stagione. E che per una domenica blocca tutto e tutti.

Un po’ come si blocca il traffico sul Lungotevere, con migliaia di agenti chiamati a vegliare il flusso dei tifosi. A suffragio di quanto scritto poc’anzi, va stigmatizzato l’atteggiamento di qualche ragazzo in divisa, forse troppo voglioso di menare le mani (o i manganelli) per contenere circoscritte tensioni, tutto sommato gestibili. Ma, come detto, questo è il frutto di ciò che si semina in settimana a livello mediatico. La miccia che si accende e che rischia di far deflagrare un ordigno disinnescabilissimo. Ormai il modo di organizzare grandi eventi in Italia verte solo su due punti cardine: divieti e repressione. E da qui non si esce, tanto è stato permesso e instillato nelle menti di Questure e Prefetture. Peraltro, senza voler rievocare la retorica pasoliniana su Valle Giulia, chi resta a far da argine a queste politiche scellerate sono i celerini più che i funzionari graduati, mera manovalanza mandata allo sbaraglio senza logica né preparazione. I recenti fatti di Napoli ne sono una fulgida dimostrazione. Ci andassero loro a gestire l’ordine pubblico, uscendo dalla bolla in cui vivono, forse capirebbero meglio l’inutilità (se non addirittura la pericolosità) delle loro scelte.

Tornando alla sfida odierna: come accaduto anche nelle ultime stracittadine, lo stadio registra il sold out. Una bella notizia dopo alcuni anni in cui pure il derby era divenuto soggetto a quell’allontanamento dagli stadi che ormai si protrae da almeno tre lustri. Si gioca in casa di una Lazio che cerca il secondo successo consecutivo, dopo l’1-0 rimediato all’andata. Per l’occasione la Curva Nord ha diramato un comunicato con cui invita tutti a portare una bandiera con i colori tradizionali del club: il bianco e il celeste. L’effetto che ne consegue – assieme alle due sciarpate realizzate nell’arco dei 90′ – è davvero di grande successo, rimandando a quelle stupende sbandierate anni ’70 con cui l’Olimpico era solito vestirsi. In particolar modo la grande quantità di bandiere mi ricorda una delle foto più celebri per la storia calcistica della Lazio, quella del 12 maggio 1974. Data in cui, sconfiggendo il Foggia, la banda Maestrelli conquistò il primo tricolore della sua storia. In uno stadio, per l’appunto, imbandierato da cima a fondo. Con il passare degli anni ammetto di apprezzare sempre più gli elementi essenziali del tifo all’italiana, come sciarpe, fumogeni, bandiere e bandieroni. In alcune occasioni li trovo persino più belli delle coreografie fatte con il compasso che tanto vanno oggigiorno.

Derby in trasferta, almeno secondo il sottoscritto, vuol dire sempre avere qualche motivazione in più. Sia perché ci si ritrova in inferiorità numerica, al cospetto degli eterni rivali, sia perché si è consapevoli di dover dare più del solito per farsi sentire e onorare i propri colori. In questa chiave, infatti, devono vederla anche i romanisti, che si compattano in un bel blocco in grado di coinvolgere Sud, Distinti e una parte di Monte Mario dove sono posizionati i ragazzi che generalmente occupano il parterre della Tribuna Tevere, i quali questo pomeriggio si mettono in evidenza per il clima caloroso creato in seno a un settore generalmente destinato al pubblico più freddo e abbiente. Sin da subito i giallorossi sfoggiano ottima confidenza con la pirotecnica, realizzando infine una fumogenata “spontanea” all’ingresso delle due squadre in campo. Diversi fumoni e qualche torcia piovono anche sul tartan, rimandando la mente a dolci ricordi del passato, quando il derby capitolino rappresentava uno spettacolo a dir poco unico da questo punto di vista. Ma in questi tempi bui, dove accendere una torcia è equiparato a compiere una rapina, vedere un denso fumo colorato alzarsi dai settori assume un valore ancor più importante. Come spesso mi capita di dire, la pirotecnica è forse l’ultimo atto di vera ribellione che le curve possono inscenare. Soprattutto in categorie come la Serie A.

Sarà anche per questo che il Derby di Roma viene sovente condannato e stigmatizzato. Perché nella sua anima non si è ancora piegato alle logiche commerciali di altri derby e prima, durante e dopo si respira ancora un’aria tutto sommato primordiale. Non totalmente conciliante verso lo show business del pallone.

All’ingresso delle squadre la Nord cala la sua coreografia, scegliendo l’Enrico V di Shakespeare e in particolar modo il discorso nel giorno di San Crispino, quando gli inglesi ebbero la meglio sull’esercito francese. “No mio caro cugino. Se è destino che si muoia, siamo già in numero più che sufficiente; e se viviamo, meno siamo e più grande sarà la nostra parte di gloria. In nome di Dio, ti prego, non desiderare un solo uomo di più”. È una parte dello stesso che appare nel Distinto lato Monte Mario, ultimato da “Noi pochi, noi felici pochi, noi manipolo di fratelli” esposto lungo la vetrata della curva.

Menzione anche per la Tevere, che ormai da qualche anno può contare su una notevole partecipazione di natura ultras. Tanti bandieroni, qualche torcia, sciarpe e molte provocazioni ai dirimpettai, anche attraverso l’esposizione delle classiche e immortali banane. Se i derby con la Tevere divisa a metà e teatro di tafferugli sono lontani, di certo non mancano le schermaglie con il vicino Distinto Sud, che a più riprese risponde alle provocazioni, scambiando anche qualche colorato fumogeno e rendendo il clima infuocato. Degno di una stracittadina romana.

Una disputa che viene giocoforza accesa anche dalla doppia provocazione laziale sui recenti avvenimenti che hanno riguardato i Fedayn. In Nord fa la sua ricomparsa il vecchio striscione Quadraro, che a memoria non veniva portato all’Olimpico almeno dalla prima metà degli anni ’90. Mentre in Tevere un disegno che ritrae alcune persone nascosto dietro ai cespugli fa capolino e viene rivolto in direzione Curva Sud.

I romanisti provocano invece i dirimpettai ricordando la loro recente uscita dalla Conference per mano degli olandesi dell’AZ Alkmaar e lanciando diverse invettive di matrice prettamente ultras nei confronti di Nord e Tevere.

Capitolo tifo: credo vada fatta un’equa divisione. Il pubblico laziale risulta sicuramente più colorato, per tutte le motivazioni soprelencate, offrendo indubbiamente una buona prova canora, ma faticando un po’ a coinvolgere la parte più alta del settore, mentre quello romanista sotto questo punto fa un pochino meglio, forse proprio grazie a quella sensazione di trasferta. In particolar modo è molto apprezzabile il sostegno a partita ormai persa, con il nuovo coro sulle note di “Mrs. Robinson” di Simon and Garfunkel che si dimostra antidoto efficace alla delusione per la sconfitta.

Con la Roma ridotta in dieci uomini per oltre un’ora – a causa di una ingenua espulsione di Ibañez, che già all’andata aveva regalato il gol agli avversari – alla fine è una rete di Zaccagni a dare i tre punti agli uomini di Sarri. Rete che ovviamente fa scoppiare di gioia la fetta di stadio destinata ai laziali, che si producono in una di quelle belle e sentite esultanze tipiche di questa partita, colorando poi i settori con diverse torce e qualche fumogeno. Al fischio finale ovazione di gioia su sponda bianconceleste, mentre la Sud continua orgogliosamente a cantare.

L’ultima istantanea della stracittadina è ancora la sbandierata di marca biancoceleste. Una mare di bandiere che, facendo contrasto con quelle ancora in piedi e sventolanti dei romanisti, consegnano agli annali questa sfida, della quale ogni tanto bisognerebbe ricordare il valore folkloristico e affettivo. Invece che fomentare solo ed esclusivamente polemiche e timori infondati. O comunque gestibili.

Mentre la notte sta calando, la folla si disperde attorno allo stadio, riconquistando la via di casa. Chi sormontato dalla delusione della sconfitta, chi euforico per aver vinto due derby di seguito e poterne godere fino alla stagione prossima. Resta una delle partite più veraci e autentiche della nostra massima divisione, una giornata che – sebbene non sia paragonabile a quelle di tanti anni fa – ha ancora il sapore di quell’Italia che attorno al calcio palpita e annulla tutto il contorno domenicale per gettarsi anima e cuore nel pallone. Una sinergia che a Roma – piaccia o meno – continua a contraddistinguere il tessuto di una città forse provinciale, ma tremendamente innamorata delle sue squadre.

Simone Meloni
Per le ultime quattro foto si ringrazia www.asromaultras.org